Al cinema dal 3 aprile con Europictures e Adler Entertainment
In The Shrouds, David Cronenberg esplora nuovamente il tema del corpo e della morte, che da sempre definisce il suo cinema, ma lo fa con un approccio inedito e ancora più introspettivo. Il protagonista, Karsh (interpretato da Vincent Cassel), un uomo che ha perso la moglie Becca (Diane Kruger), ha sviluppato una tecnologia che permette di osservare i defunti attraverso videocamere incorporate nei sudari. Il suo cimitero multimediale, GraveTech, rappresenta il culmine di un’ossessione: riuscire a mantenere un legame con Becca, a vederla e interagire con il suo corpo anche dopo la morte. Ma quando delle anomalie appaiono nel corpo della defunta e un atto di vandalismo minaccia la sua opera, Karsh si immerge in un mondo fatto di cospirazioni, domande inquietanti e realtà distorte, mentre il suo dolore lo spinge sempre più lontano dalla ragione.
Il film segue un ritmo lento e ponderato, in linea con l’evoluzione stilistica di Cronenberg, che in questa pellicola ha messo da parte la violenza esplicita per concentrarsi su un’esplorazione psicologica del lutto e della sua elaborazione. Non è un film che punta alla spettacolarità, ma piuttosto ad un’espressione cruda e filosofica del dolore, dove la tecnologia assume un ruolo primario non come mezzo di evoluzione, ma come strumento di controllo e ossessione. Karsh, infatti, non è solo un uomo che ha subito una perdita, ma un individuo che cerca nel corpo della sua defunta moglie la risposta a un bisogno profondo, un desiderio di prolungare la sua esistenza attraverso la tecnologia, al di là della morte.
Le riflessioni di Cronenberg sui temi del voyeurismo, della mutazione corporea e della morbosità del desiderio non si limitano all’aspetto fisico, ma si estendono anche alla dimensione psicologica e metafisica. La carne di Becca, ora mutata e forse viva in un altro senso, diventa un simbolo della continuità e della disgregazione. Karsh cerca di guardare oltre la morte, ma la sua ricerca lo porta a confrontarsi con il caos, il complotto e una realtà che sfugge da ogni definizione razionale. È questo contrasto tra il desiderio di controllo e la percezione della fragilità umana che Cronenberg mette in scena con freddezza e precisione.
Il film si arricchisce anche di un tema che Cronenberg non ha mai smesso di trattare: la paranoia del complotto. L’ipotesi che servizi segreti russi o cinesi possano essere coinvolti nel sabotaggio della tecnologia di Karsh è una delle tante possibilità che il film lancia senza mai dare certezze. In un mondo già disturbato dal caos della morte, la cospirazione diventa un altro veicolo per il dolore e la confusione di Karsh, che non riesce più a distinguere tra realtà e illusione. La relazione tra il protagonista e la sua tecnologia non è quella di un uomo che crea, ma di qualcuno che si lascia consumare dal proprio bisogno di controllo e dalla propria ossessione. La sua ricerca, invece di liberarlo, lo intrappola in un limbo esistenziale.
L’inquietudine e la disperazione che permeano il film sono accentuate dalla scelta stilistica di Cronenberg, che adotta un linguaggio cinematografico volutamente dissonante. I dialoghi, spesso lenti e privi di emozione, sembrano più speculazioni filosofiche che conversazioni reali. La messa in scena è ridotta all’essenziale, senza alcuna tentazione di drammatizzare la materia. La tecnologia e l’intelligenza artificiale, pur essendo centrali, non sono demonizzate, ma piuttosto osservate con una diffidenza che scava nel loro potenziale distruttivo, alimentato dalla nostra insaziabile curiosità e dal bisogno di vedere più oltre, anche quando non dovremmo.
The Shrouds è, in ultima analisi, un film sul lutto e sulle ossessioni, su un corpo che non muore mai davvero, ma continua a trasformarsi in una costante ricerca di significato. Sebbene l’interpretazione della trama possa sembrare sfuggente, è proprio questa indeterminatezza che cattura lo spettatore, che si ritrova a navigare nel caos di una realtà frammentata e senza risposte definitive.
Cronenberg sembra aver abbracciato la sua stanchezza, trasformandola in un’autoironia pungente, come se il suo stesso cinema si fosse arreso alla difficoltà di trovare verità in un mondo che ha smarrito la sua bussola. La fine del film lascia il pubblico sospeso, privo di risposte chiare, ma con il profondo senso di un’umanità che, nonostante tutto, continua a desiderare, a cercare, a vivere, anche nel mezzo della morte.
Ilaria Berlingeri