L’australiano Sean Byrne, autore del sorprendente The loved ones, si confronta con lo stilema per eccellenza del genere horror: la casa infestata da presenze demoniache. Se crediamo a tal proposito di aver già visto tutto e troppo, The devil’s candy ci farà ricredere, perché Byrne ci regala qualcosa di nuovo grazie all’utilizzo originalissimo della musica metal (Metallica soprattutto, ma anche Sun O))), Machine Head, Slayer) e della pittura, che divengono i motori trainanti della narrazione.
Già l’incipit è folgorante, col panzuto Ray che, assillato da voci malefiche che gli sussurrano all’orecchio, attacca una chitarra elettrica all’ampli e suona accordi distorti a tutto volume, per poi spaccare il cranio alla madre a colpi di quella stessa chitarra.
Diversi anni dopo, nella stessa casa di Ray, si trasferisce il pittore metallaro Jesse con la moglie e la figlia adolescente (metallara anche lei). Anche Jesse sente quelle voci malefiche e in preda ad esse dipinge soggetti inquietanti che però soddisfano il suo estro creativo più delle opere di commissione a cui è costretto.
La classica storia di possessione demoniaca alla Amityville segue il ritmo rabbioso dell’heavy metal, che a sua volta si fonde alla pittura nervosa ed energica di Jesse, costituendo un interessante parallelo dipinto/omicidio, colore/sangue.
La regia di Byrne è talentuosa e attenta ai dettagli, con il rosso, colore del diavolo, presente in ogni inquadratura e una costruzione della tensione giocata più sulle suggestioni che sull’orrore mostrato.
Il personaggio di Jesse, che visivamente rimanda alla figura di Cristo, è ben costruito, diviso tra ambizioni artistiche e doveri famigliari (il rapporto d’amore e di condivisione di interessi con la figlia è descritto con cura).
La violenza, che si sceglie di mostrare molto meno di quel che ci si può aspettare, è tutta giocata sullo scompenso psicologico e sulla teoria che il male ricerca l’innocenza (o l’infanzia) perché ha il sangue più dolce.
Qualche scompenso narrativo o caduta di tono non inficia la validità di un film orgogliosamente indie, che colpisce soprattutto per la forza dello stile visivo e uditivo.
Alberto Leali