Leone d’argento per la regia a Venezia e vincitore di 3 Golden Globe (miglior film drammatico, regia e attore), è al cinema dal 6 febbraio con Universal Pictures
Con The Brutalist, vincitore di 3 Golden Globe e candidato a 10 premi Oscar, Brady Corbet conferma la sua ambizione smisurata, realizzando un’opera fuori dal tempo, colossale nella forma e nel contenuto. Dopo L’infanzia di un capo e Vox Lux, il regista americano porta all’estremo la sua poetica, costruendo un film che è insieme un’indagine sull’arte, un affresco storico e una riflessione sul compromesso tra genio e potere.
Girato in VistaVision 70mm, The Brutalist racconta la parabola di László Tóth, architetto ungherese di origine ebraica emigrato negli Stati Uniti nel dopoguerra, interpretato da un Adrien Brody monumentale. Il suo Tóth è un uomo consumato dal proprio talento, divorato dall’ambizione e dalla solitudine, un artista disposto a sacrificare tutto per lasciare un segno indelebile. Brody offre una delle sue prove più intense e stratificate, costruendo un personaggio che trasmette sia la grandezza dell’architetto visionario che la fragilità dell’uomo spezzato. La sua presenza scenica è imponente, ma è nei dettagli—uno sguardo vacuo, una postura curva sotto il peso delle proprie creazioni, un silenzio carico di rimpianto—che l’attore tocca vette straordinarie. In The Brutalist, Brody riesce a evocare la disperazione e la determinazione di chi è destinato a essere inghiottito dal proprio stesso genio, trasformando ogni scena in un duello tra l’uomo e il suo destino.
Il rapporto tra Tóth e il magnate Van Buren (Guy Pearce), mecenate ambiguo che rappresenta il volto seducente e predatorio del capitalismo americano, è il cuore pulsante del film. Tra loro si sviluppa un legame fatto di ammirazione e sopraffazione, di dipendenza finanziaria e sottomissione artistica. Nel mezzo, il tormentato legame con la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsófia (Raffey Cassidy), che segna l’ultimo legame con la terra d’origine e con un’identità sempre più sfumata.
L’estetica del film riflette la monumentalità della narrazione: ogni inquadratura è pensata per restituire il peso dell’architettura, il senso della costruzione e della perdita. La fotografia livida, le scenografie imponenti e la colonna sonora spigolosa di Daniel Blumberg contribuiscono a creare un’atmosfera che oscilla tra il solenne e il disturbante. Corbet, con il suo stile rigoroso e wagneriano, costruisce un film-mondo che ingloba riferimenti alla Bauhaus, alla storia dell’architettura modernista e alla tragedia del Secolo breve, senza mai cedere a facili soluzioni narrative.
La sequenza d’apertura è emblematica: l’arrivo di Tóth a New York, tra caos e oscurità, culmina con un’inquadratura ribaltata della Statua della Libertà, simbolo di un sogno americano già incrinato. L’illusione di una terra promessa si scontra con la realtà di un’America che esige sacrifici, trasformando il talento in merce di scambio. Il destino di Tóth diventa metafora della condizione dell’artista nel sistema capitalistico: la sua grandezza creativa si scontra con le logiche del profitto, mentre la sua vita privata si sgretola sotto il peso dell’ambizione.
Come in Il petroliere di Paul Thomas Anderson o Andrej Rublev di Tarkovskij, The Brutalist affronta il conflitto tra genio e distruzione, tra creazione e annichilimento. La dipendenza dall’oppio di Tóth, che lo trasforma in un fantasma errante tra i cantieri delle sue opere incompiute, suggerisce un parallelo con la dissoluzione interiore di un’America che fagocita i suoi sognatori. Il film è intriso di un lucido antiamericanismo, che non si limita a denunciare le contraddizioni del sistema economico, ma le inscrive in una riflessione più ampia sulla Storia e sulla memoria.
L’espansione della durata—tre ore e mezza, intervallo incluso—non è un vezzo, ma una necessità: The Brutalist è un’opera che pretende tempo per dispiegarsi, per costruire la propria architettura narrativa con la stessa lentezza e lo stesso rigore con cui Tóth progetta le sue strutture. Il film non si preoccupa di essere accessibile, né cerca il consenso: come il suo protagonista, aspira alla grandezza senza compromessi. Corbet realizza un “film impossibile”, consapevole della sua natura di oggetto fuori mercato, di cattedrale nel deserto cinematografico contemporaneo.
Solo nel finale le opere di Tóth si rivelano davvero allo spettatore, come se la loro esistenza fosse stata fino a quel momento un’illusione, un miraggio. L’ultimo sguardo sulla sua architettura è anche una riflessione sul cinema stesso: conta il percorso o il risultato? L’ambizione o il lascito? The Brutalist non offre risposte, ma si impone come un film che, al di là dei giudizi, non può essere ignorato. È un’opera titanica, problematica e straordinaria, e Adrien Brody, con la sua interpretazione magistrale, ne è il cuore pulsante, dando vita a un personaggio che resterà impresso nella memoria cinematografica.
Giancarlo Giove