Dal 10 al 15 maggio 2022
GLORY WALL, Miglior spettacolo de La Biennale Teatro 2020, è incentrato sul tema della censura.
Un muro di 12 metri separa completamente il palco dalla platea. Questa enorme pagina bianca si anima di paradossi taglienti, visioni poetiche, suoni e coreografie oniriche che compongono un affresco ironico e impietoso sul tema della censura e sul potere, ormai inesistente, dell’arte.
Lo spettacolo, diretto da Leonardo Manzan e da lui scritto con Rocco Placidi, vede nel cast Paola Giannini, Giulia Mancini, Alessandro Bay Rossi, Leonardo Manzan e Rocco Placidi.
Leonardo Manzan, classe 1992, si diploma attore alla Civica Scuola di Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Esordisce alla regia con lo spettacolo It’s App to You (vincitore di numerosi premi tra cui InBox 2018). Vince il bando per registi Under 30 della Biennale di Venezia 2018/19 con lo spettacolo-concerto Cirano deve morire. Invitato alla Biennale Teatro 2020, presenta lo spettacolo Glory Wall che si aggiudica il premio come Miglior spettacolo, ed è la sua personale interpretazione del tema del Festival: la censura.
Note di regia
GLORY WALL nasce su commissione. Di fronte al tema della censura scelto da Antonio Latella per la Biennale Teatro di Venezia n. 48 non ho cercato scorciatoie come l’omaggio ai grandi nomi censurati, la citazione o la libera interpretazione.
Ho affrontato il tema senza mezzi termini, ho scelto il muro contro muro. È nato un corpo a corpo con quella richiesta, che era a sua volta una provocazione.
Il tema andava preso sul serio, quindi ridicolizzato, poi dissacrato nella sua colpevole solennità e infine vissuto. Così ho costruito un muro che nasconde completamente il palcoscenico alla vista, che censura l’azione sul palco e sposta tutta l’attenzione sul pubblico.
Nascondersi significa rinunciare volontariamente a una serie di convenzioni teatrali, negare il corpo dell’attore, privare il pubblico della tutela del regista e dei tecnici in sala che “gli guardano le spalle”. Portare a casa lo spettacolo da dietro a un muro significa abituarsi a perdere un po’ il controllo della situazione, ma significa anche sentirsi più importanti e più liberi (del resto, questo fa la censura: dà credibilità alle opinioni che attacca).
Glory Wall è uno spettacolo che mostra, in una forma immaginifica, ironica e provocatoria, con un’estetica che mischia il contemporaneo figurativo, il pop e il fumetto, il processo di riconoscimento della censura che è in noi, della censura che è costitutiva del teatro di oggi, questo mondo che crede di essere importante perché si autocertifica tale, questo piccolo mondo che, a parole, è tutto per il dialogo, ma un dialogo impossibile tra chi non ha niente da dirsi che non sappia già.
Uno spettacolo che non si accontenta di riconoscere lo status quo, uno spettacolo che è scomodo in senso letterale: vuole farci stare scomodi tutti, noi sul palco e voi in platea. Uno spettacolo che mette in discussione tutto. Glory Wall.
“Mettendo il pubblico di fronte a un muro bianco, che blocca la vista della scena, Manzan gioca in modo molto intelligente, ironico e divertente con l’idea del censurare sé stessi e gli altri – e con l’importanza diminuita del teatro. Il gioco che imposta con questo muro è radicale, coerente e molto immaginativo dal punto di vista formale, creando immagini e scene che riecheggeranno per molto tempo, interagendo con il pubblico attraverso minuscoli fori. Lo fa con un gioco nel quale è il regista di frammentarie parti del corpo, cioè mani, dita e polsi, che compiono micro-azioni attraverso questi fori. Lo spettacolo porta l’esperimento di Beckett con Not I a un livello superiore.”
Motivazioni della giuria internazionale (Maggie Rose, Susanne Burkhardt, Evelyn Coussens, Justo Barranco)
“Mettendo il pubblico di fronte a un muro bianco, che blocca la vista della scena, Manzan gioca in modo molto intelligente, ironico e divertente con l’idea del censurare sé stessi e gli altri – e con l’importanza diminuita del teatro. Il gioco che imposta con questo muro è radicale, coerente e molto immaginativo dal punto di vista formale, creando immagini e scene che riecheggeranno per molto tempo, interagendo con il pubblico attraverso minuscoli fori. Lo fa con un gioco nel quale è il regista di frammentarie parti del corpo, cioè mani, dita e polsi, che compiono micro-azioni attraverso questi fori. Lo spettacolo porta l’esperimento di Beckett con Not I a un livello superiore.”