Adattato, diretto e interpretato da Alfonso Postiglione, lo spettacolo andrà in scena dal 21 al 26 gennaio
Dal 21 al 26 gennaio 2025, il Teatro Vascello di Roma ospiterà “Il Rito”, un’opera tratta dall’omonimo film del 1969 di Ingmar Bergman. La rappresentazione, adattata e diretta da Alfonso Postiglione, esplora temi come la censura e la potenza destabilizzante dell’arte.
Il cast comprende Alice Arcuri nel ruolo di Thea Winkelmann, Giampiero Judica come Sebastian Fischer, Alfonso Postiglione nei panni del giudice Abrahmsson e Antonio Zavatteri nel ruolo di Hans Winkelmann.
Le scene sono curate da Roberto Crea, i costumi da Giuseppe Avallone, le musiche da Paolo Coletta e il disegno luci da Luigi Della Monica.
La trama
Tre artisti di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna sono denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo.
Il giudice Abrahmsson li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Non riuscendo a farsi un’idea dai colloqui con gli artisti, l’uomo assiste alla performance allestita nel suo ufficio, subendone conseguenze inaspettate.
Note di regia
Il rito è tratto dall’omonimo film (in originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1968 e uscito l’anno successivo, il primo da lui realizzato diretta- mente per la televisione, l’ultimo girato interamente in bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere pensandolo come allestimento teatrale per il Dramaten di Stoccolma, incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e consigliere. Ma il regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli quattro personaggi, ed è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica.
Nello specifico, lo spettacolo è tratto dal testo originale integrale, da cui Bergman sviluppò in seguito la sceneggiatura, costituendosi, dunque, come una sorta di inedito.
Tre attori di teatro di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui con gli artisti in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni interpersonali, l’uomo non riesce a farsi una idea chiara della faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, con conseguenze fatali.
La performance dei tre artisti si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare va- lenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di una loro ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il giudice può corrispondere facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si celano identità e funzioni da sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza stessa del Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea.
Oltre la censura subita spesso da Bergman ai suoi tempi, ed oggi strisciante in maniera sempre meno latente tra le pieghe più varie del nostro vivere sociale, nel testo è centrale il tema della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della morte.
Si sviluppa in nove scene ambientate esclusivamente in interni. I rapporti tra i personaggi sono tesi e affilati e posseggono una forza interlocutoria che tiene desta l’attenzione fino all’inaspettato finale.
L’impianto scenico si presenta come una grande scatola bianca, indefinita, al centro della quale campeggia una piattaforma sospesa, su cui è allestito, in nero, l’ufficio del giudice Abrahmsson. L’uomo è rintanato lassù, rifugiato dal mondo, protetto dal suo abito istituzionale. Non osa, forse non può, o non sa, allontanarsi dal suo ambito. I tre artisti agiscono sul bianco ineffabile nelle loro intime relazioni, quando non interrogati dall’autorità del magistrato, che li accoglie, alternandoli, sulla piattaforma-ufficio. In realtà, il loro è una sorta di assedio volontario, di assalto all’istituzione, di contagio artaudiano con i germi della loro libertà artistica e del loro consapevole azzardo esistenziale.
Il rito, teatralmente, è soprattutto una partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi. La natura muscolare delle fisionomie al centro della vicenda ne fanno materia per un moderno kammerspiele. L’aggressività è evidente, nei confronti tra le parti, e risalta la scontrosità delle identità in gioco.
Il giudice si mostra dapprima cerimonioso, quasi adulatorio nei confronti dei tre artisti chiamati a dar conto del loro spettacolo. I tre sono divi, famosi, privilegiati elementi umani da preservare sul loro piedistallo, e lui è un semplice servitore della comunità.
Ma già dopo la prima scena, il gioco si fa più prepotente da parte del censore. L’azione scardinante dei vari interrogatori comincia a mostrare i meccanismi che regolano i rapporti, moralisticamente discutibili, del terzetto di artisti.
Le dichiarazioni diventano vere e proprie confessioni, sempre più intime. Ci sembra quasi di sentire i miasmi e avvertire i rumori interiori di queste individualità tenute insieme da relazioni malate, sul filo dell’eccezione. L’atto confidente diventa liberatorio. Tanto che vien quasi il sospetto che ci provino gusto a farsi umiliare. E allora sotto un’inchiesta dai vaghi toni kafkiani, con l’accusa di oscenità ci finisce la vita stessa, nel nostro caso quella di tre individui, troppo liberi e creativi rispetto alla morale comune. E si dispiegano dunque la fragilità e ipersensibilità nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta dell’irresponsabile Sebastian, la razionalità noiosa di un più calcolatore Hans.
Ma a poco a poco i piani iniziano a ribaltarsi. Nel corso dell’istruttoria, anche il giudice svela le sue frustrazioni e sgradevolezze, abbrutito da una disperata solitudine e ricattato dalle debordanti umanità dei tre artisti.
Nell’ultima scena, dove c’è il rito per antonomasia, quello dionisiaco della Eleva- zione, c’è il lasciarsi andare definitivo, il consegnare il peso di una intera esistenza.
Il rito di cui forse ci parla davvero Bergman è dunque quello dello svelarsi, raccontarsi, esibirsi continuamente e sfacciatamente e così facendo consegnare le proprie colpe a qualcuno, fosse anche la colpa ultima di vivere, rischiando anche di perderla, la vita.
Un atto catartico che afferma la necessità, fin dalle notti dionisiache, dell’atto ineludibile della (auto)rappresentazione.
Denunciare come osceno un rito accusando l’arte e gli artisti di essere portatori (in)sani dell’atto misterico, ci spinge a sospettare, ancora oggi, che l’unica sacralità possibile è contenuta, prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico. Eciò, in un mondo che si impegna a celebrare quotidianamente la lunga agonia dell’estinzione di Dio.
E dell’uomo.