In scena dal 26 novembre al 22 dicembre
Gabriele Lavia, tra i più grandi maestri della scena teatrale, torna al Teatro Argentina, dal 26 novembre al 22 dicembre, con il debutto in prima nazionale di Re Lear, uno dei capolavori della drammaturgia shakespeariana che da oltre quattrocento anni custodisce le molteplici sfaccettature di un tempo ancora attuale.
L’eterna tragedia del potere, dove si consuma la conflittualità del rapporto tra padri e figlie e figli, in una vicenda di paternità ed eredità,irrompe sulla scena attraversata dal campionario di passioni, tradimenti e miserie dell’esistenza umana, per questa nuova produzione delTeatro di Roma, realizzata in sinergia con Effimera e LAC Lugano Arte e Cultura.
Nel ruolo di Lear, re potente che rinuncia al suo “essere” e consegna il regno nelle mani delle figlie, per tornare ad “essere” soltanto un padre, lo stesso Lavia, protagonista e regista dell’opera shakespeariana, dopo 40 anni dal debutto del 1972 che lo vide interprete del ruolo di Edgar nello spettacolo diretto da Giorgio Strehler.
Scritto all’inizio del Seicento, il testo si basa sulla leggenda di Lear, re della Britannia, prima che diventasse parte dell’Impero Romano, la cui storia era già stata narrata in cronache, poemi e sermoni, ma cheShakespeare ha saputo rendere immortale tramite una pluralità di personaggi di potente drammaticità, che la nuova regia di Lavia esalta e illumina attraverso il nutrito cast di 14 interpreti, composto da: Giovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani,Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero, Lorenzo Volpe.
Lavia definisce Re Lear una storia di perdite: perdita della ragione, perdita del Regno, perdita della fraternità. «Non resta che vivere in una tempesta. Ma la tempesta di Lear è la tempesta della sua mente. La tempesta della mente dell’umanità, la morte dell’uomo che ha abbandonato il suo Essere. Ed ora vive il suo non-Essere nella Tempesta della mente, nella Tempesta che lo travolge. E tutti sono travolti. Tranne colui che più degli altri ha sofferto e può “essere-Re” della sofferenza come percorso di conoscenza – scrive Lavia nelle note di regia – “Essere o non essere” sono certamente le parole più importanti di tutto il Teatro Occidentale e, come sanno (quasi) tutti, le dice Amleto. Subito dopo “essere o non essere” Amleto dice: “Questa è la domanda”. Come se la vita di ogni uomo, non solo di Amleto, che ogni uomo lo sappia o no, non fosse altro che porsi questa domanda. Re Lear, invece, “nega” questa domanda e decide per il “Non essere”, non essere più Re. Dare via il proprio “essere” (il proprio regno) è come dare via la propria ombra (come nel famoso romanzo). Nel momento in cui Re Lear non è più Re è solo “Lear”. E che cos’è Lear se non è “più” Re? Non è che un “uomo”. Uno come tanti che non contano nulla. Non è che “nulla”. “Sono io Lear?…” si domanderà disperato. Travolto dalla “tempesta” del “non essere” Lear la attraverserà fino alla fine, fino all’ultimo dolore quando l’uomo Lear, portando in braccio la figlia Cordelia morta, urlando, domanderà agli spettatori in platea e nei palchi del Teatro: “Siete uomini o pietre? Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo…”. In questo finale, colpo di genio, Shakespeare-Lear invoca le grida e il pianto di tutti gli spettatori come se fossero il Coro ideale per l’ultima scena del suo capolavoro. Le grida e il pianto “dentro” il “silenzio degli spettatori”. Un silenzio che è urlo di pianto. Forse il finale del Re Lear ci fa comprendere meglio il finale di Amleto: “Il resto è silenzio”».