Cornovaglia, 1830. Il piccolo Philip Ashley, rimasto orfano, viene cresciuto amorevolmente dal cugino Ambrose in una grande tenuta di campagna. Diversi anni dopo, Ambrose si sposa inaspettatamente in Italia con una donna di nome Rachel. Le lettere di Ambrose a Philip si fanno, però, sempre più rade e le poche che gli giungono chiedono il suo aiuto, perché Rachel lo sta distruggendo. Quando Ambrose morirà, Philip giurerà vendetta alla vedova, nel frattempo in viaggio verso l’Inghilterra, salvo poi trovarsi di fronte una donna completamente diversa da come l’aveva immaginata. Philip sarà, infatti, talmente affascinato da lei, da decidere perfino di compromettere l’ingente proprietà che sta per ereditare.
Rachel è un thriller psicologico in costume diretto da Roger Michell e basato sul romanzo Mia Cugina Rachele di Daphne du Maurier (Rebecca la prima moglie, Gli uccelli), già portato al cinema da Henry Koster nei primi anni ’50.
Narrato in prima persona dal protagonista Philip Ashley, interpretato da un po’ incolore Sam Claflin, giunto alla notorietà grazie ad Hunger Games ed Io prima di te, Rachel ci conduce in una Cornovaglia ventosa e dai floridi ed ampi paesaggi, che si pone subito in contrasto con i tumulti interiori dei personaggi.
La bella e misteriosa Rachel, interpretata da una perfetta Rachel Weisz, incarna la donna che cerca in ogni modo di mantenere la propria indipendenza in una società dominata dagli uomini e dai concetti di proprietà e possesso. Un personaggio che con i modi gentili, la sensibilità spiccata e il fascino ammaliante trasforma ben presto in un cagnolino adorante un protagonista alle prime armi con gli effetti del desiderio.
Nonostante, infatti, i ripetuti tentativi dell’uomo di renderla un oggetto che completamente gli appartenga, Rachel è determinata, da vera femminista ante litteram, a rimanere libera. E’ lei che prende il potere, anche attraverso l’arma della sessualità, in un mondo ottuso e provinciale, in cui la donna fungeva per lo più da tappezzeria.
Ma ciò che rende il personaggio della protagonista ancor più affascinante e contemporaneo è l’aura di inafferrabile ambiguità che la circonda. Scena dopo scena, non detti e atteggiamenti contraddittori, gesti all’apparenza amorevoli e tisane (forse) nocive, ci insinuano il dubbio che la donna possa essere anche un’abile manipolatrice e crudele assassina.
E l’inatteso finale non fa altro che alimentare le nostre insicurezze, confermando l’intento del film di porsi anche come spietata disamina dei chiaroscuri dell’anima e dei rapporti umani.
La regia di Michell illustra con cura un’opera esteticamente raffinata e stilisticamente old style: l’evocativa fotografia di Mike Eley accarezza l’asperità di anime e paesaggi, i costumi sono assolutamente ineccepibili e le scenografie esaltano il fascino gotico della decadente ed ampia magione che fa da cornice alla vicenda.
Alberto Leali