Roma, ai giorni nostri. Il mite toelettatore di cani Fabio torna in libertà dopo otto mesi di prigione e una pena scontata al posto dell'”amico” Claudio, ex pugile e boss del quartiere, che lo sottopone a continue vessazioni e umiliazioni. Fino a quando, dopo l’ennesima ed insostenibile violenza, Fabio troverà la forza di ribellarsi, vendicandosi in modo sorprendentemente crudele.
Terzo lungometraggio da regista del mago degli effetti speciali Sergio Stivaletti (famose le sue collaborazioni con Argento, Bava, Soavi, ecc.), Rabbia furiosa si ispira liberamente all’efferato episodio di cronaca del “Canaro della Magliana”, oggetto anche dell’acclamato e recentissimo film di Matteo Garrone Dogman.
A parte questo aspetto, però, i due film hanno ben poco in comune, essendo caratterizzati da stili profondamente diversi. Il primo è, infatti, il raffinato racconto di un rapporto vittima/carnefice che colpisce più per la violenza psicologica che per quella fisica, evitando di mettere in scena la nota e terribile vendetta finale; il secondo è, invece, un film fieramente di serie B, ambientato in tempi moderni nel quartiere del Mandrione, che dopo la lunga descrizione del rapporto fra i protagonisti, sfocia in una gustosa sequenza splatter, destinata a renderlo in un piccolo cult dei giorni nostri.
Diversamente da Dogman, inoltre, Rabbia furiosa prende avvio da quando “er canaro” torna in libertà e trova ad attenderlo il boss del quartiere a causa del quale ha dovuto scontare otto mesi di prigione, che lo reinserisce subito nel suo giro di malaffare. Stivaletti fa procedere il racconto dell’ambiguo rapporto fra i due di pari passo con l’accurata descrizione dell’ambiente delinquenziale romano; lo fa omaggiando gli amati poliziotteschi anni ’70, come si nota sin dai titoli di testa che scorrono mentre un’automobile sfreccia lungo le strade di Roma, o le atmosfere western alla Sergio Leone, a cui si richiama la bella colonna sonora “col fischio” di Maurizio Abeni.
Ma Rabbia furiosa ha anche il coraggio di allontanarsi dal racconto della mera cronaca, aprendosi inaspettatamente a curiosi elementi fantastici: la nuova droga che “er canaro” è costretto a spacciare è, infatti, un misterioso liquido verde che dà a chi l’assume una forza sovrumana capace di uccidere. Chiaramente, questo elemento serve a preparare il terreno per l’attesa sequenza finale della tortura e per dare ulteriore forza all’evoluzione psicologica del protagonista, che si concretizza anche in ululante metamorfosi animalesca.
Stivaletti sforna tutto il meglio del suo repertorio, mettendo in scena gli atti del processo sulle violenze inferte dal canaro alla sua vittima: e fa la gioia degli amanti del genere, che di scene gore così ben fatte non ne vedevano da tempo. Protesi e repliche di arti ed organi, sangue che scorga a fiumi, perfino il famigerato “lavaggio del cervello” danno vita a una sequenza degna di quel cinema “perduto”, di cui furono maestri Fulci, Argento, Bava e D’Amato.
Stupisce inoltre, rispetto a Dogman di Garrone, l’attenzione riservata alla figura di Anna, la moglie del canaro, interpretata da Romina Mondello, unico raggio di luce in un mondo dominato da uomini, immerso nel degrado e nella violenza. Ma efficaci sono nel complesso tutti i membri del cast, a cominciare dal bravo Riccardo De Filippis (Romanzo criminale – La serie), nei panni di Fabio, e dal temibile Virgilio Olivari nel ruolo di Claudio.
Alberto Leali