Dal romanzo di William S. Burroughs, un viaggio allucinato nell’amore e nella solitudine. Presentato in concorso ufficiale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, arriva al cinema dal 17 aprile con Lucky Red
Nel suo adattamento del romanzo di William S. Burroughs, Queer, Luca Guadagnino firma uno dei suoi lavori più intimi e sensibili, esplorando le profondità della solitudine e del desiderio in un contesto esotico e decadente. Il film segue William Lee, un uomo alla ricerca di connessioni umane in una Città del Messico dei primi anni ’50, ma il suo è un viaggio segnato dalla dipendenza, dall’alienazione e dalla necessità di sfuggire a se stesso.
Lee, interpretato da un Daniel Craig straordinario, è un predatore in cerca di un amante che non sia troppo legato alle convenzioni della moralità borghese, ma la sua ricerca non si limita a un semplice incontro fisico. La sua è una lotta contro la propria solitudine, un conflitto che lo porta a esplorare esperimenti psichedelici e a imbarcarsi in una spedizione alla ricerca dello Yage, una pianta capace di stimolare le capacità telepatiche. È un viaggio verso l’inconscio, in un mondo dove le barriere tra il reale e l’immaginario sembrano dissolversi.
Guadagnino, pur mantenendo la fedeltà al romanzo, arricchisce la sua lettura con una delicatezza visiva che trasforma ogni scena in un’ode alla vulnerabilità umana. Il film non è solo una riflessione sulla sessualità e sull’identità queer, ma anche sullo smarrimento esistenziale. Il rapporto di Lee con Eugene (Drew Starkey), giovane e ambiguo, diventa il fulcro di una dinamica di seduzione e rifiuto, un gioco pericoloso dove l’amore è sfalsato, irrisolvibile e asimmetrico. La difficoltà di Lee di comunicare i propri sentimenti trova il suo parallelo nel viaggio fisico e metaforico che intraprende: un disperato tentativo di raggiungere ciò che non può afferrare.
La fotografia di Sayombhu Mukdeeprom conferisce al film un’atmosfera onirica e nostalgica, una Città del Messico mai del tutto verosimile, ma completamente immersa in un’aria di mistero e sensualità. Il set, ricreato a Cinecittà, ricorda i film degli anni ’40 e ’50, ma con una leggerezza che scardina i cliché del cinema hollywoodiano, dando una nuova dimensione ai temi del divismo e della solitudine.
Al centro di Queer ci sono il corpo e la pelle, ma anche la mente e la memoria, che attraverso il viaggio e le sperimentazioni cercano di superare i limiti imposti dalla realtà. La seduzione diventa il mezzo attraverso cui si cerca di colmare il vuoto interiore, ma anche un’arma che non porta mai alla vera unione. La dolceamara bellezza di un amore che si fa carne e pelle, eppure rimane lontano, si trasforma in un’immersione viscerale nella psiche di Lee, che è incapace di afferrare davvero ciò che tanto cerca.
Daniel Craig, ormai lontano dal suo James Bond, regala una performance che dimostra tutta la sua versatilità. La sua interpretazione di Lee è fragile, inquieta, ma anche profondamente umana. Il suo personaggio è distante dal machismo che lo ha caratterizzato in passato, riuscendo a trasmettere un’intensità emotiva che rende Queer un’opera di grande impatto. Accanto a lui, Drew Starkey incarna Eugene con un volto fresco e sfuggente, un oggetto amoroso che mai si lascia davvero afferrare, creando un contrasto perfetto con il personaggio di Craig.
Il film si svolge come una danza tra il desiderio e l’incapacità di realizzarlo, tra il corpo e l’anima, in un continuo oscillare tra il piacere e la sofferenza. Guadagnino mescola registri diversi con maestria, passando dal body horror alla poesia visiva, fino ad arrivare a un finale che lascia il pubblico in sospeso, con la consapevolezza che le risposte alle domande più profonde della vita non sono mai facili, e spesso sono irraggiungibili.
In questo senso, Queer non è solo un film sull’amore, ma sul viaggio dentro sé stessi, sul bisogno di confrontarsi con i propri fantasmi, e sul tentativo di colmare la distanza che ci separa da ciò che desideriamo. E così, mentre il corpo di Lee si perde nelle braccia di Eugene, il film stesso si dissolve in un’inquietante consapevolezza: il viaggio è sempre solitario, e forse, non c’è mai una vera destinazione.
Concludendo con le parole di Burroughs, cantate da Caetano Veloso nei titoli di coda, Queer ci invita ad abbandonarci al mistero dell’amore e della vita, un viaggio senza fine in cui la destinazione è il nostro essere più profondo, quello che spesso non riusciamo a comprendere o a raggiungere.
Federica Rizzo