In scena dal 5 al 10 marzo
Dal 5 al 10 marzo va in scena Pà, la drammaturgia di Marco Tullio Giordana e di Luigi Lo Cascio, su testi di Pier Paolo Pasolini. Regia di Giordana e con protagonista lo stesso Lo Cascio, il monologo ci regala una cernita nell’opus pasoliniano immenso che non ha certo l’ambizione di dire tutto né fornire il quadro nemmeno abbozzato, ma di scegliere cosa i due artisti hanno scoperto di indispensabile, al punto da riassumerlo nel vocativo con cui lo chiamavano i ragazzi: a Pa’.
Note di regia
Saremo in molti a chiederci, anche dopo il centenario, quanto attuale rimarrà Pasolini, cosa di lui sarà ancora vivo e cosa ingiallito, cosa ancora “portabile” e cosa riporre nell’armadio in attesa di tornare in auge come modernariato. Non so dare a questa domanda una risposta se non con questo spettacolo ordito insieme a Luigi Lo Cascio, da tanti anni prediletto compagno di ventura. Si tratta di una cernita nell’opus pasoliniano immenso che non ha certo l’ambizione di dire “tutto” né fornire il quadro nemmeno abbozzato, ma di scegliere cosa abbiamo scoperto per noi di indispensabile, al punto da riassumerlo nel vocativo con cui lo chiamavano i ragazzi: a Pa’, per invitarlo a tirare due calci di pallone o chiedergli la comparsata in un film.
Io sono stato uno di quei ragazzi, un contemporaneo, uno che avrebbe potuto averlo a portata di mano se non l’avesse considerato un maestro irraggiungibile. Insieme a lui ce n’erano altri – solo in Italia vengono in mente Sciascia, Calvino, Bobbio, Moravia, Eco e tante altre leggendarie figure – ma Pasolini era di gran lunga il preferito. Non tanto per l’assidua vigilanza sui temi del giorno, quanto per la passione e l’imprevedibilità nel trattarli. Senza contare il Cinema, senza contare la Poesia, dove ritrovavo le stesse provocazioni, gli stessi stimoli, ma come se tutto fosse stato risolto in una Forma e apparisse perciò meno doloroso, meno disperato di quanto trapelava negli articoli o nella prosa militante. Quanta rabbia in lui a scrivere, quanta in noi a leggerlo, strana la sensazione di intimità e irritazione, come davanti a un fratello maggiore infinitamente dotato, amatissimo e indisponente. Dopo il suo assassinio non mi sono mai chiesto cosa restasse di lui, mentre me lo chiedevo sempre per i suoi detrattori. La perdita di una formidabile e autorevolissima figura pubblica era sotto i nostri occhi, pazienza per quelli che non l’hanno capito al volo. Per molti fu necessarioaspettare l’avverarsi delle “profezie”, il giungere puntuale di ciò che aveva visto da lontano. Ma Pasolini non voleva essere profeta: il suo era un grido di battaglia che bisognava raccogliere per fronteggiare il declino anziché trattarlo come un visionario jettatore. Più che la desolata rappresentazione dell’Italia che non c’è più, mi colpisce oggi quanto fosse per lui necessario consumarsi e mettersi a repentaglio, addirittura “fisicamente”, per poter decifrare e descrivere il suo Paese. Qualcosa che non riguarda solo l’intelligenza ma il corpo, la carne, il sangue. Questo spettacolo cerca di dar conto proprio di questa disperata attualità, senza preoccuparsi troppo di apparire parziale o arbitrario. D’altra parte ognuno ha il suo Pasolini, com’è giusto che sia, e questo non è che il nostro. Anzi il “suo”, perché non c’è parola, virgola, capoverso che non provenga dalla sua opera tanto che potremmo definirlo un’autobiografia in versi.
Note sulla scenografia
“Sono segni sintetici, poetici” così Giovanni Carluccio descrive gli elementi, oggetti della vita quotidiana, che via via popolano e si accumulano sulla scena dello spettacolo. Un crescendo di rifiuti tale da trasformarsi in una sorta di discarica sospesa, “un’esplosione di immondizia che ricorda il finale di Zabrinskie point”. La scenografia di Pa’ è il risultato di varie suggestioni artistiche, cinematografiche e letterarie, suggestioni che nascono però prima di tutto dal prezioso dialogo tra regista e scenografo. “L’idea del prato verde è frutto di uno dei primissimi incontri con Marco Tullio Giordana – racconta Carluccio –. Il declivio vuole rappresentare un ameno paesaggio collinare immerso nella natura, le luci sono le lucciole, insetti che abitano luoghi puliti come poteva essere il Friuli della prima giovinezza di Pasolini. La scena con la quale si apre lo spettacolo è un paesaggio dell’infanzia poi contaminato dall’immondizia, che invece affollava le periferie che tanto attraevano il poeta, come quella romana dove l’archeologia convive con la spazzatura”. Sono i luoghi di Pasolini, ma anche periodi o avvenimenti della sua vita che, attorno ai versi recitati nel monologo di Luigi Lo Cascio, si costruiscono e prendono vita nel corso della rappresentazione attraverso semplici oggetti carichi di significato. Segni sintetici, poetici, appunto.