Nina (Cristiana Capotondi), una giovane madre single, decide di lasciare Milano e di trasferirsi con la figlia in un paesino della bassa Lombardia, dove trova impiego come inserviente in una prestigiosa clinica per anziani. Qui viene molestata dal direttore della struttura, Marco Maria Torri (Valerio Binasco), colpevole dello stesso reato verso altre dipendenti, che però hanno scelto il silenzio, preoccupate di perdere il posto di lavoro. Nina però non ci sta, e nonostante venga isolata da tutti, si lancia in una coraggiosa battaglia per far valere i suoi diritti e la sua dignità di donna.
Marco Tullio Giordana torna al cinema con Nome di donna, un film importante e più che mai urgente in un momento in cui il tema delle molestie è decisamente all’ordine del giorno.
L’impresa non era facile e, a dire il vero, non tutto riesce al regista milanese, che realizza un’opera apprezzabile per la volontà di far luce su una realtà taciuta e tristemente attuale, ma allo stesso tempo troppo fredda e schematica per risultare incisiva.
Ma procediamo con ordine, analizzando gli aspetti positivi di Nome di donna. Giordana e la sceneggiatrice Cristiana Mainardi sottolineano giustamente la solitudine che colpisce chi osa ribellarsi a un sistema in cui tutti sanno, ma nessuno parla. In quella struttura per anziani in mezzo alla natura regna, infatti, la stessa omertà de I cento passi. Nessuna solidarietà fra donne accomunate dallo stesso dramma; nessun aiuto da parte della Chiesa, che preferisce chiudere gli occhi, perché più votata ai soldi che alla cura delle anime; nessun sostegno da parte della morale corrente, che tende a sminuire (“Ai miei tempi si chiamavano complimenti” dice il personaggio di Adriana Asti).
La sceneggiatura riflette, inoltre, sul potere e sul suo esercizio, perché in un contesto come quello lavorativo, in cui i ruoli sono gerarchicamente definiti, la prevaricazione sessuale nasce proprio dalla disuguaglianza e dalla possibilità del più forte di abusare con facilità della propria posizione.
Notevole anche il contributo degli attori: Cristiana Capotondi, in particolare, è brava nel far emergere l’interiorità combattuta di Nina, donna coraggiosa e determinata che rifiuta di vedere schiacciata la sua dignità. Non un’eroina, ma una persona con le sue paure e fragilità, che, però, trova la forza di lottare, nonostante tutto e tutti. Efficaci anche le prove di Valerio Binasco, nei panni del personaggio più sgradevole e rischioso, e di Michela Cescon, nel ruolo della solare e positiva avvocatessa Tina Della Rovere. Ma da segnalare sono anche le incisive partecipazioni di Vanessa Scalera e soprattutto di una sempre in formissima Adriana Asti.
Se non si discutono gli ottimi propositi, ciò che indebolisce l’ultimo lavoro di Giordana è, però, il graduale appiattirsi del racconto, che si fa sempre più schematico e didascalico.
Più adatto a un format televisivo che cinematografico, Nome di donna appare troppo programmatico ed esemplare: un compitino svolto correttamente per mettere ordine in una materia complessa e poco frequentata, ma a cui manca l’anima. E il finale, che Giordana definisce un po’ alla Dino Risi, è più furbo che tagliente.
Alberto Leali