Una Napoli inedita, borghese e lontana dalle periferie, fa da sfondo allo splendido “La tenerezza” di Gianni Amelio, che realizza il ritratto di un’umanità bloccata nei propri errori e nei propri sentimenti e adagiata su un malessere che corrode dall’interno, a cui si fatica dolorosamente a rinunciare.
Lorenzo è un anziano ex avvocato che vive in un palazzo storico al centro di Napoli. Ha due figli, Elena e Saverio, con cui non ha più alcun rapporto. Elena ne soffre e si sforza di recuperare il rapporto con suo padre, ma i tentativi risultano vani. Lorenzo si affeziona, invece, ad una giovane famiglia, Fabio, Michela e i loro due bambini, da poco trasferitasi a Napoli e che abita nell’appartamento vicino al suo. L’uomo diventa presto uno di famiglia, finché una sera, rientrando a casa, si accorge che qualcosa di imprevisto e terribile è accaduto nel palazzo.
Una vicenda in cui l’amore va di pari passo con la paura: una paura che frena, crea disagio e procura frustrazioni profonde, perché si teme di non sapere amare nel modo giusto o di non essere più in grado di farlo.
Gli straordinari personaggi de “La tenerezza”, interpretati da attori in stato di grazia e diretti al solito mirabilmente da Amelio, non sono né buoni né cattivi, anche quando commettono i gesti più crudeli e aberranti: sono, invece, smarriti, inquieti, infelici, chiusi in un dolore che fa male, ma che custodiscono gelosamente.
Renato Carpentieri, in un ruolo e in un’interpretazione indimenticabile, è il protagonista assoluto de “La tenerezza”: lo seguiamo nel suo percorso di apertura e fiducia verso l’altro, ma anche nella terribile discesa in un inferno fatto di illogica violenza, sordo dolore ed aspre verità.
La tenerezza del titolo è quella di cui abbiamo bisogno per scacciare quell’ansia comune che ci coglie da dentro e che ci fa sentire inappropriati, soli, distanti, senza vedere nulla a cui poter aggrapparci, in un mondo fatto di trappole, inganni e male gratuito.
E’ un sentimento che va conquistato, come avviene per Elena con suo padre Lorenzo, che vale solo quando è autentica e che va data solo quando ce n’è reale bisogno. E’ il punto finale di un percorso tortuoso e doloroso teso a scardinare le chiusure e a consentire una guarigione; un vero e proprio atto di coraggio che spesso viene fuori solo dopo la più forte delle sofferenze.
Molte le sequenze che emozionano e rimangono nella memoria: il bellissimo finale tra Carpentieri e la Mezzogiorno al centro direzionale, il dialogo tra Lorenzo ed Aurora (Greta Scacchi), Germano che attacca il venditore ambulante, la tenera ed inquieta intimità fra Fabio e Michela, con Lorenzo che li guarda con imbarazzo e rimpianto.
Amelio accarezza tante e complesse tematiche, ma il suo tocco arriva al cuore, all’anima delle cose: e questo riescono a farlo solo i grandi maestri. Non c’è retorica, non c’è giudizio, non ci sono sentimentalismi, ma solo personaggi senza maschere che risultano, nonostante ciò, avvolti da un velo di mistero che li rende ancor più fragili e inclassificabili.
Chi sta crescendo senza un padre, chi non ha mai avuto una famiglia, chi ce l’ha ma finge di non averla o chi ce l’ha ma non riesce ad essere felice: i personaggi di Amelio soffrono tutti di una mancanza, che li porta ad avvicinarsi e a scontrarsi.
Un film intriso di dolcezza e malinconia, di sincerità disarmante anche dinanzi a ciò che è più difficile da ammettere: un film che è il peregrinare inquieto in una Napoli che trasmette costante instabilità, ma che è anche un ritorno a casa, perché ‘la felicità è una casa in cui tornare’ e che si conquista tornando indietro e non guardando avanti. Sicuramente il film italiano più bello della stagione.
Alberto Leali