Spagna. Toby (Adam Driver), regista pubblicitario disilluso, si ritrova a girare uno spot ispirato a Don Chisciotte proprio nei pressi del villaggio in cui anni prima, quando era ancora un giovane idealista, realizzò un film sul capolavoro di Cervantes. Qui rincontrerà il vecchio calzolaio che aveva interpretato il ruolo del protagonista (Jonathan Pryce), convinto ormai di essere realmente Don Chisciotte. Si accorgerà, così, con sorpresa che quel piccolo film da studente ha cambiato per sempre la vita e i sogni di tutti gli abitanti del posto.
Si è parlato molto de L’uomo che uccise Don Chisciotte, e non solo a Cannes, dove è stato presentato come film di chiusura del festival. Già, perché si tratta dell’opera certamente più sfortunata e travagliata di Terry Gilliam, ideata per la prima volta venticinque anni fa e poi continuamente rimandata, tra set distrutti, decessi (Jean Rochefort e John Hurt che avrebbero dovuto interpretare Don Chisciotte), perdite dei diritti sulla sceneggiatura e mancanza di denaro. Molti di voi, non a caso, ricorderanno il bellissimo documentario Lost in La Mancha, nato come making of del film e poi divenuto doloroso resoconto del suo fallimento.
L’uomo che uccise Don Chisciotte appariva, dunque, come un film “maledetto” destinato a non vedere mai la luce, ma fortunatamente, grazie alla costanza e alla testardaggine del suo autore, giunge finalmente sugli schermi (la data di uscita italiana è il 27 settembre con M2 Pictures).
Ma che cosa è realmente quest’ultima fatica di Terry Gilliam? La risposta non è affatto facile, perché nel corso di venticinque anni il progetto è cambiato non poco, assumendo forme diverse da quello originale e uno spirito totalmente nuovo.
L’uomo che uccise Don Chisciotte attraversa infaticabile stili, epoche produttive, idee diverse di fare cinema: in esso c’è tutta l’immaginazione incontrollata e debordante di Gilliam, quella che ci ha fatto innamorare dei suoi lavori più celebri, e che qui si fa quasi testamento della sua poetica.
Salti temporali, doppi, illusioni visive, deformazioni prospettiche, parallelismo fra passato e presente, soggettive allucinate, inserti grotteschi, scontro tra realtà e fantasia: L’uomo che uccise Don Chisciotte ingloba tutto il cinema del suo autore, mettendo in scena un tripudio di storie in cui i ruoli dei personaggi si sovrappongono e scambiano di continuo.
E’ Gilliam infatti il vero Don Chisciotte, un regista che crede in maniera totale nelle potenzialità dell’immaginario e che vi si rifugia ostinatamente per non rinunciare ai propri sogni. Allo stesso tempo, il suo film racconta il mondo del cinema e i suoi abitanti, coloro che tradiscono il talento per il denaro e che sottovalutano il potere delle proprie creazioni sulla vita degli altri.
Attraverso il personaggio quasi shakespeariano di Toby, interpretato da un credibile Adam Driver, Gilliam tira in ballo, infatti, la responsabilità che ogni cineasta ha verso il proprio pubblico, mentre attraverso la gustosa galleria di personaggi che popola il paesino spagnolo dove fu girato il primo Don Chisciotte (Jonathan Pryce su tutti), evidenzia le conseguenze spesso drammatiche del potere pericolosamente ammaliante del cinema.
Non importa, quindi, cosa accade davvero sullo schermo in L’uomo che uccise Don Chisciotte: bisogna piuttosto lasciarsi trascinare dal caos inquieto e allucinato di un mondo in cui la realtà (Sancho Panza) diviene sogno (Don Chisciotte), rendendo ogni cosa possibile.
Discontinuo, imperfetto, traballante, L’uomo che uccise Don Chisciotte è però un tassello fondamentale nel percorso artistico di Gilliam, la dichiarazione poetica di un regista che non ha mai smesso di combattere contro i mulini a vento e di ammaliare il pubblico con la purezza visionaria del suo cinema.
Alberto Leali