Tutti conosciamo, più o meno bene, la celebre saga di Re Artù, sovente oggetto di trasposizioni cinematografiche, alcune delle quali (Excalibur di John Boorman, in primis) hanno evidentemente influenzato l’immaginario del pubblico. Tocca adesso al versatile Guy Ritchie, padre dei due Sherlock Holmes ma anche di cult del cinema pulp made in England, portare in scena il suo nuovo, ennesimo ‘King Arthur’. Lo diciamo subito: l’operazione di Ritchie ci ha convinti e ci è piaciuta per più motivi. Con una narrazione che procede instancabile avanti e indietro nel tempo, tra passato, presente e futuro, Ritchie fa sfoggio di una padronanza tecnica straordinaria, imprimendo al film uno stile iperdinamico, marchio di fabbrica del suo cinema. Ciò che più sorprende in ‘King Arthur’ è il prodigioso lavoro di montaggio, che attraverso stacchi assidui e violenti conferisce al film un ritmo serrato, sostenuto da dialoghi spesso ironici e scoppiettanti che ricordano i suoi lavori degli anni ’90. I numerosi flashback svelano inoltre sempre qualcosa di nuovo sulla vicenda personale del protagonista, facendo sì che il film si stratifichi e proceda tumultuosamente in un groviglio di strati temporali, eventi e personaggi; e se in un primo momento ciò spiazza, poco per volta finisce per affascinare e coinvolgere. Curatissimo il design (si veda la inquietante creatura acquatica che Vortigern invoca scendendo nei sotterranei), mentre il bombardamento sensoriale, il frame rate, i continui movimenti di macchina e le mirabolanti coreografie di combattimenti creano un caos visivo fascinosissimo in cui ci si perde, reso ancora più impressionante dall’uso del 3D. Un’opera di forte impatto, dunque, che predilige la potenza ammaliante delle immagini all’accuratezza e alla puntualità storica; un prodotto strabordante ed eccessivo, che raggiunge appieno il suo scopo, ovvero intrattenere e travolgere lo spettatore. Ritchie mantiene pertanto un’impronta autoriale riconoscibile nell’ambito di una produzione chiaramente mainstream. Finalmente, la CGI, il 3D, il sound design e l’originale e curiosa colonna sonora sono usati in maniera opportuna. A dispetto delle precedenti versioni, inoltre, quello di Ritchie è un film più cupo, ambientato non a Camelot ma nella Londra romana, con poca magia (Merlino appare solo brevemente) e un Artù che non aspira alla grandezza ma è il destino che gliela offre. Ritchie ce lo mostra in una fase precedente a quella della celebre tavola rotonda, e nella veste di un (super)eroe moderno: muscoloso, sfrontato e dal taglio di capelli alternativo. Allontanandosi dalla consolidata tradizione per crearne una nuova, con una messa in scena martellante e non esente dal sapore videoludico gradito ai più giovani, Ritchie ci regala un Artù cresciuto nella miseria e nel fango, tra i bassifondi di una Londinium dominata da criminalità, prostituzione e violenza.
Roberto Puntato