Nel cast Emma Stone, Jesse Plemons (vincitore come miglior attore a Cannes), Willem Dafoe, Margaret Qualley e Hong Chau. Dal 6 giugno nelle sale italiane
Il nuovo film di Yorgos Lanthimos, Kinds of Kindness, presentato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, dove ha conquistato il premio per la migliore interpretazione maschile a Jesse Plemons, arriverà il 6 giugno nelle sale italiane.
Il film vede protagonista la due volte vincitrice del Premio Oscar® Emma Stone, insieme al candidato all’Academy Award® Jesse Plemons, al candidato all’Academy Award® Willem Dafoe, Margaret Qualley, alla candidata all’Academy Award® Hong Chau, Joe Alwyn, Mamoudou Athie e Hunter Schafer.
La sceneggiatura originale è scritta da Lanthimos e Efthimis Filippou, segnando così la loro quinta collaborazione (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, Dogtooth, Alps). Il film è prodotto da Ed Guiney, Andrew Lowe, Yorgos Lanthimos e Kasia Malipan.
Recensione a cura di Alberto Leali
Yorgos Lanthimos torna alle origini, con un’opera antologica dal fil rouge non immediato, interpretata da uno stesso gruppo di attori che veste, però, ruoli diversi nei tre atti che la compongono.
Dimenticate La favorita e Poor Things!, Kind of Kindness è più dalle parti di The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro, ma anche dei primi film del provocatorio cineasta greco, da Dogtooth ad Alps.
Kind of Kindness è un film certamente divisivo, che sarà lodato da chi ama lo stile glaciale e l’ironia dissacrante del primo Lanthimos e odiato da chi, invece, lo riterrà un esercizio di stile sfiancante e nichilista.
Noi apparteniamo al primo gruppo e riteniamo questo nuovo e spiazzante film del regista greco un’opera che, con sfacciato coraggio, mette alla berlina mali e nevrosi della società contemporanea: il servilismo che porta perfino a rinunciare al proprio libero arbitrio, le teorie cospirative che appannano le menti e il fanatismo religioso che nulla ha a che vedere con la fede, ma molto col potere.
I tre (lunghi) episodi che compongono il film sono tutti dedicati a un misterioso signor R.F.M. e contengono molti dei temi cari alla filmografia del primo Lanthimos: dal sacrificio al masochismo amoroso, dalla dipendenza alla manipolazione, dalla vita come finzione alla sottomissione a forme di potere brutali e insensate.
Dei tre episodi il migliore resta il primo, che vede Jesse Plemons succube del suo capo Willem Dafoe, che ha letteralmente costruito e organizzato la sua intera vita, assicurandogli al contempo ogni bene materiale. Il loro rapporto si incrina quando l’implacabile capo chiede al sottomesso di uccidere un uomo e, dopo un iniziale rifiuto, lo priva di tutte le sue fragili sicurezze.
Il più semplice, e tutto sommato meno convincente, è l’episodio centrale, con il poliziotto Jesse Plemons che ha perduto la moglie Emma Stone in circostanze misteriose, ma un bel giorno la vede tornare con caratteristiche che lui non riconosce più. La spinge così a compiere “prove d’amore” sempre più estreme (e per stomaci forti), a cui lei stoicamente non si sottrae.
Il terzo episodio vede, infine, Jesse Plemons ed Emma Stone, che ha abbandonato figlia e marito, seguire una misteriosa setta, retta dai guru Dafoe e Hong Chau, in cerca di una ragazza dai poteri taumaturgici.
Feroce, beffardo, surreale, Kind of Kindness torna alle atmosfere algide ed enigmatiche dei lavori che hanno rivelato Lanthimos, mettendo in scena tre fiabe oscure e sardoniche che svelano un’umanità senza speranza.
Così, i gesti di gentilezza del titolo sono, in realtà, atti di sopraffazione e di violenza che personaggi miseri, fragili e ossessivi compiono per dare un senso alle loro vite, trovare risposte, credere senza tentennamenti. Ma soprattutto per sentirsi amati, accettati, parte di un qualcosa, anche a costo di annientare se stessi per compiacere un decisore esterno. L’esatto opposto, in pratica, di ciò che fa Bella Baxter, affamata di esperienze, conoscenza e indipendenza, in Poor Things!, rendendo evidente la scelta di rottura di Lanthimos dal suo acclamato film precedente.
Seguendo la lezione buñueliana, Lanthimos viviseziona la follia che caratterizza le nostre esistenze solo in apparenza sensate e ci scuote nel profondo, mettendo in crisi le nostre gracili certezze.
Il suo esibito talento registico è anche qui ai massimi livelli, ma a funzionare alla grande sono anche i bravissimi interpreti (e in particolare Jesse Plemons, meritatamente premiato a Cannes) che, nel passare da una maschera all’altra, risultano sempre convincenti.
Lanthimos sforna, quindi, un film decisamente più in linea col suo cinema, che non teme di essere indisponente e compiaciuto, né di affidarsi a una struttura episodica invisa a tanti e con sviluppi narrativi non sempre sorprendenti.
Un’opera respingente, ostile, dissonante, piena zeppa di simboli non sempre facilmente decifrabili, ma allo stesso tempo fascinosa, amarissima, impattante, di quelle a cui non smetti di pensare una volta fuori dalla sala.
Un modo per riaffermare, dopo due film meno “alla Lanthimos”, il suo approccio, la sua poetica e il suo occhio, al netto di ogni compromesso.