Guidonia. Vicino a un campo rom, Denis (l’ottimo Denis Malagnino), padre di famiglia disoccupato e costretto a spacciare droga, rinviene il corpo di una donna, vittima di uno stupro. Si tratta della ragazza del suo amico Tiberio (Tiberio Suma), che, appreso l’accaduto, si mette subito alla ricerca dei responsabili deciso a vendicarsi. Denis lo accompagna in macchina durante la notte, tentando in tutti i modi di farlo desistere dai suoi propositi criminali. La situazione si complica, purtroppo, quando entra in scena il boss del quartiere, lo spietato Tibetano (Stefano Miconi Proietti), con il quale Denis è pesantemente indebitato.
Il codice del babbuino si ispira a un genere che il cinema italiano non frequenta più da diverso tempo: quel revenge-rape movie che ebbe il suo apice negli Stati Uniti negli anni ’70 e che ha avuto una florida tradizione anche a casa nostra, grazie ad autori come Ruggero Deodato, Franco Prosperi o Aldo Lado.
Un filone intriso di violenza e forte realismo, in cui non ci sono né buoni né cattivi, ma a dominare sono la brutalità, il terrore e la volontà di vendetta. Davide Alfonsi e Denis Malagnino, ex componenti di quel Collettivo Amanda Flor che ci regalò il sorprendente La rieducazione, scelgono, così, di raccontare un oscuro viaggio ai confini della morte, popolato da personaggi “brutti, sporchi e cattivi”, alla ricerca di un nemico che non si vede mai e privati di qualunque forma di catarsi.
Sfruttando efficacemente il paesaggio anonimo e degradato di Guidonia e rinchiudendo l’intera pellicola in un’auto in movimento (come fece Mario Bava con il cult Cani arrabbiati), i cineasti mettono in scena una realtà sociale miserabile e priva di controllo, di cui il crimine e la giustizia privata costituiscono le regole.
Con una macchina da presa nervosa e in costante movimento e con un’ampia insistenza sui primi piani, Alfonsi e Malagnino indagano impietosamente le anime dei protagonisti: quella di un ragazzo orgoglioso, contraddittorio e affascinato dal male, quella di un uomo a cui la vita non lascia più speranze, ma intento a salvare l’amico da un destino infausto, e quella di uno strozzino persuasore che sembra godere delle altrui sofferenze.
Lo stile è asciutto e volutamente grezzo, il montaggio è dinamico e fluente, i dialoghi si affidano spesso all’improvvisazione risultando potentemente autentici (da applauso quello “tarantiniano” in cui Denis e il Tibetano discutono su chi sia il regista di Scarface). Il codice del babbuino mescola il thriller con il road movie, il western con il dramma, il noir con il racconto psicologico.
Ne deriva un’opera pessimistica e feroce, cupa e potente, abilissima nel fare di necessità virtù: la dimostrazione che al cinema i soldi non servono se non si hanno delle buone idee e il talento per realizzarle. E grazie, ancora una volta, alla preziosa Distribuzione Indipendente, per un’opera così piacevolmente anomala nel nostro attuale e fin troppo mansueto panorama cinematografico.
Roberto Puntato