Dall’11 al 16 ottobre diretto da Michele Guardì
Scritto e diretto da Michele Guardì, da anni una delle firme più prestigiose della Televisione Italiana, già autore e regista del musical sui Promessi Sposi che per due stagioni ha riempito i grandi teatri italiani, “Il caso Tandoy” si preannuncia come l’evento teatrale della stagione per l’attualità dei temi trattati e per l’originalità della struttura nella quale il racconto spazia a volte sorprendentemente dal dramma a momenti di inaspettata comica leggerezza.
Nel cast Gianluca Guidi e Giuseppe Manfridi, con la partecipazione di Gaetano Aronica, Roberto Iannone, Noemi Esposito, Marcella Lattuca, Marco Landola, Antonio Rampino e Caterina Milicchio. Scene e costumi sono di Carlo De Marino e le musiche di Sergio Cammariere.
Lo commedia parte dalla intenzione di un Autore di mettere in scena uno degli errori giudiziari più clamorosi degli anni sessanta legato all’assassinio di un Commissario di Pubblica Sicurezza ucciso in pieno centro mentre, sottobraccio alla giovane e bellissima moglie stava per rientrare a casa.
L’indomani sarebbero dovuti partire per Roma, dove il Commissario era stato trasferito per una promozione. Convinto che il delitto fosse volto a fermare quella partenza, il Procuratore incaricato delle indagini fa arrestare l’amante della donna, il primario dell’Ospedale Psichiatrico della città, appartenente ad una delle più famiglie più in vista dell’Isola e fratello di un potente uomo politico per anni Presidente della Regione.
Questa prima fase della storia viene raccontata con il confronto-scontro tra i Protagonisti della storia e l’Autore costantemente in scena che teatralmente fa uscire i personaggi, stanchi e scontrosi, dalle cronache dei giornali che ha conservato in mansarda, suo luogo preferito per i momenti di creatività.
Sono giornali che, assecondando e qualche volta precedendo il Procuratore, si accaniscono sugli aspetti scandalistici della vicenda infittita da maldicenze a sfondo sessuale nella quale si arriva incredibilmente ad ipotizzare che dietro l’assassinio del Commissario possa addirittura esserci un rapporto di “tribadismo”, come lo definisce con sprezzante termine tecnico il Procuratore, tra la moglie del Commissario ed la moglie del Primario suo amante.
Fissato sin dall’inizio sul delitto passionale, escludendo qualsiasi altra pista, senza una prova e appoggiandosi solo su improbabili indizi, il Procuratore tiene in carcere per mesi il Primario, due presunti esecutori materiali e persino la Vedova ad un certo punto accusata di avere concorso all’assassinio del marito e perciò di essere complice dell’amante principale indiziato. La corte di Assise, chiamata a giudicare, due anni dopo farà giustizia assolvendo tutti “per non avere commesso il fatto”.
Quando il giallo sembra chiuso senza un colpevole arriva il colpo di scena. Dai giornali usciti otto anni dopo il delitto, si affaccia un carrettiere malandato, che si presenta come l’esecutore del delitto. A scoprire la verità era stato un valente Magistrato, arrivato dalla Capitale per riaprire le indagini e che non aveva avuto riserve a rendere pubblici certi intrighi della vittima con la malavita della provincia. Il processo che sarà celebrato a Lecce per legittima suspicione si concluderà con dieci ergastoli.
Tutti in galera? Nemmeno uno. Quando, a quindici anni dal delitto, la Cassazione confermerà la sentenza, i condannati saranno scomparsi. Chi perché fuggito in America, altri perché nascosti chissà dove, uno perché si era impiccato in carcere e due perché morti di cause naturali. Unico finito in galera l’esecutore materiale, che era stato condannato “solo” a trent’anni in quanto, essendosi prestato al delitto dietro compenso di una povera somma della quale aveva bisogno per sopravvivere, gli era stato riconosciuto lo stato di necessità.
Quando, in chiusura della commedia, l’Autore lascerà raccontare ai protagonisti coinvolti nella prima fase delle indagini la propria incredibile verità, il Primario esprimerà il suo parere sul “caso” mostrando la lapide che aveva fatto affiggere all’ingresso del manicomio
quando, dopo anni di ingiusta gogna, era stato reintegrato da innocente nel ruolo di direttore sanitario del manicomio: “QUI NON TUTTI CI SONO E NON TUTTI LO SONO”. Il sipario cala proprio su quella lapide!