Jean-Luc Godard è il regista più ammirato della sua generazione, riconosciuto, grazie ai film fino ad allora realizzati, come un grande e talentuoso innovatore. Siamo a Parigi nel ’67 e Godard gira il discusso “La cinese”, che però sembra non piacere affatto alla critica. Nel cast c’è la sua compagna dell’epoca, l’attrice Anne Wiazemsky, nipote di Mauriac e più giovane di Jean-Luc di 20 anni. I due si amano profondamente, ma nel maggio ’68 qualcosa cambia nella vita di Godard, il quale sposa radicalmente gli ideali maoisti, con la volontà di distruggere tutto il suo percorso artistico precedente. Anche la relazione con Anne è messa a dura prova.
Non era facile realizzare un film su uno dei cineasti più famosi e rivoluzionari del cinema francese: il regista di The Artist, Michel Hazanavicius, ci riesce raccontandoci il suo Godard, ispirato certamente a quello vero, ma al servizio di una storia più intima, quella d’amore che lo legava alla giovane moglie Anne Wiazemsky, dalla cui biografia prende spunto la sceneggiatura.
È infatti soprattutto sul rapporto di coppia che il regista punta i riflettori, mostrandone la passione, la tenerezza, la quotidianità, gli ideali condivisi; ma raccontandone anche la graduale distruzione, legata alla ricerca di un uomo, votato interamente alla rivoluzione, della verità artistica e politica. Anche a costo di rinunciare al suo passato, all’amore, agli amici, a ciò in cui credeva e che lo ha reso celebre.
“Il mio Godard – chiarisce Hazanavicius alla conferenza romana di presentazione del film – non vuole giudicare le scelte dell’autore, ma descrivere quel momento di cambiamento avvenuto nel suo percorso artistico, ovvero la frattura fra un cinema che lui considerava “industriale” in favore di quello più sperimentale e radicale del Gruppo Dziga Vertov. Amo il Godard del primo periodo, che però non definirei affatto “industriale”; i suoi primi film sono girati infatti con un piccolo budget e non hanno mai incassato grosse cifre al botteghino. I film del Gruppo Dziga Vertov, invece, sono molto lontani da me, che prediligo un tipo di cinema più classico, nonostante comprenda la volontà dell’autore di realizzare un cinema diverso“.
A dare volto e voce a Godard c’è uno straordinario Louis Garrel, che riesce a trovare il giusto equilibrio tra l’empatica simpatia del suo personaggio e le sue tendenze autodistruttive: un personaggio in cui convivono tragedia e commedia, omaggiato ma trattato con grande ironia, senza per questo diventare una macchietta.
Michel Hazanavicius dice, a tal proposito, di essersi sforzato di ponderare questi due elementi, ispirandosi alla lezione di grandi autori italiani come Ettore Scola, Dino Risi e Mario Monicelli, capaci di mettere in scena tutta la complessità dell’essere umano. “Il mio Godard è una commedia gioiosa – afferma il regista – e i personaggi e la storia sono trattati con la distanza dell’umorismo, ma non c’è caricatura.
“Quello di Michel è un Godard di finzione – prosegue Louis Garrel – Ho accettato il ruolo, proprio perché il film non vuole essere realista, ma giocoso e sfaccettato“.
Hazanavicius racconta la sua storia utilizzando tutti gli stilemi formali del cinema di Godard: la voce fuori campo, l’utilizzo della scrittura e della sovrascrittura, la grafica inglobata nell’inquadratura, i giochi di parole, lo sguardo diretto dei personaggi nella macchina da presa. Ottima la regia, ricca di piani sequenza, primi piani, riprese con camera a spalla; splendida la fotografia di Guillaume Schiffman che ripropone i colori tipici delle pellicole godardiane.
Un altro punto di forza de Il mio Godard è inoltre la descrizione di un ’68 molto diverso da quello che siamo abituati a vedere al cinema: Hazanavicius ne sottolinea la gioia, la vitalità, la freschezza, la gioventù, le passioni.
Il mio Godard è, in sintesi, un film che sorprende e convince: una commedia dissacrante, irriverente, spassosa, che fa luce, in maniera atipica ma convincente, sulle luci e le ombre di uno dei più importanti cineasti del mondo.
Alberto Leali