A cinque anni dal bellissimo Amour, Michael Haneke torna con Happy end, titolo dolorosamente ironico per un film legato narrativamente al precedente (quasi uno spin-off), ma che ne costituisce, linguisticamente, l’antitesi.
Le tematiche trattate in Happy end sono quelle tipiche del suo cinema (si pensi a Il settimo continente, 71 frammenti di una cronologia del caso, Benny’s video, Caché), in particolare il marcio della classe borghese, moribonda e serrata entro i propri confini, e l’incomunicabilità e l’inferno della famiglia, qui rappresentata dai ricchi Laurent.
Al centro del film, rapporti umani ipocriti e inconsistenti, autodistruttivi e crudeli, che delineano una borghesia vacua, fasulla, cieca. Oltre all’attrice feticcio Isabelle Huppert, nel ruolo di un’arida ed efficiente magnate dell’edilizia, torna uno straordinario Jean-Louis Trintignant nei panni di suo padre, un vecchio milionario (lo stesso Georges Laurent di Amour) stanco della vita e animato da pensieri suicidi. Accanto a loro, l’altro figlio Matthieu Kassovitz, un medico con un matrimonio alle spalle, una figlia “recuperata”, una nuova compagna, un bambino appena arrivato e un’amante con cui si scambia continui messaggi in chat; mentre Franz Rogowski è il figlio del personaggio della Huppert, rampollo viziato, tossico e ribelle. Ma è la tredicenne Eve (Fantine Harduin), figlia del personaggio di Kassovitz, la figura più forte e bella di Happy end: dolente, matura, disillusa, è lei l’unica capace di vedere la vera natura degli altri (mostruosi) personaggi.
E’ suo l’iphone che cattura, attraverso brevi video, le disturbanti sequenze iniziali, in cui la voce narrante è sostituita dal minuscolo testo di un sms. Subito a seguire, l’immagine di un cantiere attraverso una telecamera di sorveglianza, che riprende un terribile crollo che lascia in fin di vita un operaio: come in altri suoi lavori, Haneke entra nel linguaggio tecnologico moderno, che diviene, così, specchio di una società alienata, senza emozioni e profondamente infelice.
Freddo, asciutto, composto da una molteplicità di frammenti e da scene fisse riprese in campo lungo, quasi a voler tenere le distanze dalla realtà che descrive, Happy end ha come scenario la città portuale di Calais, nel pieno della crisi dei rifugiati, che invadono le strade sperando di attraversare l’Eurotunnel. Il loro dramma, e la loro presenza, resta volutamente sullo sfondo, perché non tocca la famiglia Laurent, chiusa nella sua sontuosa magione, lontana da qualsiasi forma di “contatto” e concentrata unicamente sui suoi affari, sulle sue bugie e sulle sue frustrazioni.
Pur se più programmatico e meno originale di altri lavori del regista austriaco, Happy end è un pugno nello stomaco.
Alberto Leali