Al cinema, distribuito da Wanted, dal 27 giugno
Fremont, quarto film dell’iraniano-britannico Babak Jalali, prende il titolo dal ghetto popolare della comunità californiana, nella Bay Area, da molti chiamata Little Kabul, perché ospita una delle più grandi enclave di afghani negli Stati Uniti.
È qui che ha trovato rifugio anche Donya, che trascorre le giornate tra la scrittura dei biglietti per i biscotti della fortuna e le cene in un ristorante cinese gestito da un anziano appassionato di soap opere.
La donna, soprattutto, vive con il complesso di colpa di essere non solo una sopravvissuta ma anche un’espatriata. Una di quelle persone che ha abbandonato il suo Paese invaso per trovare rifugio nella terra dell’invasore, gli Stati Uniti.
Riesce, però, in modo bizzarro, a diventare la paziente di un terapista appassionato di Zanna Bianca, per far fronte alla sua irrisolvibile insonnia. L’uomo la metterà di fronte ai suoi fantasmi ma anche ai suoi sogni e bisogni più autentici.
Girato in formato 4:3 e scritto da Jalil con Carolina Cavalli (Amanda), Fremont è un piccolo film esistenzialista dalle venature surreali, che con ammirevole misura sa ben trasmettere il senso di colpa e il peso che il passato ha sulle coscienze.
Il senso di vuoto, la tendenza alla reiterazione e all’inibizione della protagonista vengono così messe in connessione con il suo desiderio di emancipazione sentimentale.
La sua storia riecheggia quella di molti rifugiati politici e lavoratori immigrati, trapiantati nella terra delle opportunità con un visto di lavoro e ben poche garanzie. È il volto nascosto del sogno americano: una realtà fatta di banale routine, dove l’integrazione spesso è solo di facciata, e l’unica via di salvezza sta nel cercare un rapporto con il prossimo.
Non a caso, il punto di svolta coincide proprio con la ricerca di una connessione umana: Donya decide di stampare un bigliettino della fortuna con un messaggio personale, sperando che una persona nel mondo lo trovi e decida di rispondere.
Pur alludendo a temi seri ed importanti legati alla storia afghana, il film non prende di petto il reale, ma sceglie uno stile ironico e straniante vicino ai toni di un certo cinema scandinavo.
La bella prova dell’esordiente Anaita Wali Zada procede per sottrazione e si rivela perfettamente funzionale ad una narrazione sobria ed equilibrata.
Ma il film vanta anche la presenza del Jeremy Allen White di The Bear, in una piccola parte, ma intensa ed incisiva.
Lento, malinconico, tra il cinema di Jarmusch e quello di Kaurismaki, Fremont è popolato da personaggi ai margini, ma vividi e ottimisti, impreziosito da un fascinoso bianco e nero e da un delizioso romanticismo.
Ilaria Berlingeri