Tre atti. Nel primo, alla porta di Dafna e Michael Feldman suonano degli inviati dell’esercito israeliano che annunciano la morte del loro figlio Jonathan, mentre svolgeva il suo dovere di soldato. La madre sviene e viene sedata, mentre Michael si ritrova da solo di fronte al suo dolore in una casa vuota e silenziosa. Nel secondo atto, assistiamo alla vita quotidiana di Jonathan e dei suoi commilitoni in un posto di guardia militare in mezzo al deserto. Nel terzo si ritorna a casa Feldman, per analizzare le reazioni dei genitori segnati da una (nuova) perdita.
Samuel Maoz, regista del notevole Lebanon, Leone d’Oro a Venezia 2009, torna al cinema con Foxtrot, per mettere in scena l’ineluttabilità del fato che si scontra con le logiche umane e militari.
Foxtrot è una danza che padre e figlio, distanti eppure imprescindibilmente legati, conducono con il destino, ritrovandosi continuamente al punto di partenza e contraddicendo ogni loro volontà di movimento e libertà.
Il film è diviso nettamente in tre atti. Il primo si concentra principalmente sulla figura di Michael e sull’interpretazione dell’ottimo Lior Ashkenazi, che porta in scena, oppresso da lunghi primi piani, tutto il dolore di un padre che perde il proprio figlio, tra assordanti silenzi, sguardi vuoti e accessi di rabbia. Poi, però, all’improvviso, le cose cambiano.
Nel secondo atto, ci si sposta dalla grande casa dei Feldman ad un container che ogni giorno sprofonda nel fango qualche centimetro in più e in cui soggiornano Jonathan e i suoi compagni. Intrappolati in un luogo deserto a presidiare un mortifero posto di blocco, attraversato da poche auto e qualche simbolico cammello, i ragazzi scandagliano la loro vita con qualche confidenza e molte azioni meccaniche, ripetitive e quasi stranianti.
Maoz ci comunica superbamente il loro senso di pesantezza e di ansiosa attesa, il terrore ma anche il desiderio dell’accidentale. Si tratta della parte del film più faticosa e surreale, ma anche più ispirata e poetica, che mostra il graduale vacillare della fede dei ragazzi nella loro missione e un nuovo improvviso intervento del destino, che sottolinea i punti di contatto fra Jonathan e Michael.
Infine, proprio come il ballo del titolo, il terzo atto ci riporta al punto di partenza, nella casa dei Feldman, in una situazione differente eppure tragicamente identica a quella iniziale. Il fato riserva, stavolta, un epilogo più amaro di quel che ci si poteva aspettare, pur se la speranza sembra fare timidamente capolino nella vita di Daphna e Michael.
Maoz ha una forza registica e un talento visivo che lasciano davvero a bocca aperta: Foxtrot è, infatti, una sequela di splendide immagini, illuminate da sinuose e virtuosistiche inquadrature e dalla suggestiva fotografia di Giora Bejach, che motivano il Gran Premio della giuria conquistato a Venezia 2017.
Seppur non esente da narcisismo, eccessi simbolici e da una certa artificiosità narrativa, Foxtrot è un film potente nel raccontare la tragedia dell’assurdo, privata e collettiva, di un Paese in perenne stato di guerra, condannato a ripetere gli stessi errori.
Non importa, dunque, se ci troviamo di fronte a un raffinato esercizio stilistico, perché Foxtrot è un film che rimane addosso e che lascia la sensazione di aver assistito a quasi due ore di grande cinema.
Roberto Puntato