1964. James Lord (Armie Hammer), giovane scrittore americano, ammira molto le opere dell’artista svizzero Alberto Giacometti (Geoffrey Rush); accetta quindi, onorato, la richiesta di posare per la realizzazione di un ritratto nella sua casa di Parigi, dove vive con la moglie Annette (Sylvie Testud) e il fratello Diego (Tony Shalhoub). Quello che però avrebbe dovuto essere un impegno di uno o due giorni al massimo si prolunga per un periodo indefinibile, a causa della ossessiva e insaziabile ricerca di perfezione di Giacometti, che sembra impossibilitato a portare a termine la sua opera.
Final Portrait non è un biopic su uno dei maggiori artisti della seconda metà del secolo scorso, ma il tentativo di rappresentare il processo creativo di un genio, noto per la smaniosa incapacità di concludere le sue creazioni. Al suo quinto film da regista, dunque, Stanley Tucci s’imbarca in un’impresa non facile, adattando il libro di memorie del giovane dandy e scrittore americano James Lord e raccontando 18 giorni della ripetitiva quotidianità di Giacometti.
“Non è un film sulla vita, bensì sulla mente di Giacometti – racconta Stanley Tucci – Non amo i biopic, perché risultano spesso solo un’esposizione cronologica e fin troppo lineare di fatti. Ritengo più interessante concentrarsi su un breve periodo della vita di qualcuno e cogliere dal dettaglio il valore universale del racconto“.
Con un ritmo e degli eventi che variano poco da un giorno all’altro, Tucci ripercorre le estenuanti fasi che impegnano l’artista nella creazione del ritratto di Lord, scandite da sigarette, pasti ingurgitati in fretta al bistrot, brevi passeggiate al cimitero di Père-Lachaise e incontri con la amante/prostituta/musa Caroline (Clémence Poésy) sotto gli occhi della moglie Annette (Sylvie Testud). Dedito alla continua revisione dei suoi abbozzi, che finivano spesso distrutti per ricominciare daccapo, Giacometti appare cosciente dell’impossibilità di ritenere una sua opera completa: non fa eccezione il dipinto di James, che fatica a trovare la giusta forma, causando il tormento dell’artista e l’esasperazione del suo modello.
“Giacometti ha dedicato anima e corpo all’arte e ha realizzato opere senza tempo. – prosegue Tucci – Aveva un’incredibile etica di devozione al lavoro, che non coincideva necessariamente con un’etica personale. Era un adulto-bambino e un egoista; per vivere come voleva doveva attorniarsi di gente che glielo permettesse, come suo fratello Diego o sua moglie Annette, con cui aveva, nonostante tutto, un rapporto onesto, sincero“.
Con uno stile minimale, fatto di piccoli gesti, attimi e dettagli, Final Portrait vive dell’interpretazione straordinaria di Geoffrey Rush, che veste i panni di un genio caotico, burbero, egocentrico e prossimo alla follia, che ci riporta alla memoria la sua indimenticabile prova in Shine. Gli fa compagnia una vincente squadra di attori, da Armie Hammer, recentemente apprezzato in Chiamami col tuo nome, agli ottimi Tony Shalhoub e Sylvie Testud.
Tucci ha il merito inoltre di mostraci una Parigi degli anni sessanta lontana dalle abusate e stereotipate immagini da cartolina, grazie soprattutto all’apporto della fotografia grigia e malinconica di Danny Cohen.
Dove però Final Portrait risulta più debole è nell’incapacità di farci appassionare pienamente alla vicenda, a causa della volontà di Tucci di farci assistere allo svolgersi degli eventi in maniera fin troppo distaccata. Ci impedisce, così, nonostante rinchiusi per gran parte del film nello studio di Giacometti, di coglierne sino in fondo la profondità dello smarrimento e l’essenza del suo rapporto con il giovane Lord.
“Vengo da una famiglia di artisti – conclude Stanley Tucci – e ho vissuto anche un lungo periodo in Italia, a Firenze. Respirare arte in famiglia ha necessariamente influenzato la mia vita e il mio gusto estetico. Ciò che mi ha spinto a realizzare un film su Giacometti è stata la volontà di raccontare le sue ossessioni e il suo processo di formazione artistica, il modo con cui un artista si misura con la propria arte e la sua capacità di guardare al futuro, che spesso viene scambiata per follia“.
Alberto Leali