Diretto da Marco Lorenzi, va in scena dal 28 febbraio al 5 marzo
Arriva al suo terzo anno di tournée, suscitando ampia attenzione di pubblico e critica, Festen. Il gioco della verità, primo adattamento italiano tratto dalla sceneggiatura dell’omonimo film danese diretto da Thomas Vinterberg, scritto da Mogens Rukove BO Hr. Hansen e prima opera aderente al manifesto Dogma 95.
A firmare la regia è Marco Lorenzi, regista fondatore della compagnia torinese Il Mulino di Amleto, vincitrice Premio della Critica A.N.C.T. 2021, che insieme a Lorenzo De Iacovo ha realizzato la versione italiana e l’adattamento.
Lo spettacolo – inserito dalla rivista Birdmen tra i 10 spettacoli imperdibili nel 2022 – è sostenuto dall’impegno produttivo di TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti, in collaborazione con Il Mulino di Amleto.
Coerente con il percorso artistico de Il Mulino di Amleto e considerato ormai un classico del teatro europeo, Festen vede in scena Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Carolina Leporatti, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca.
La pièce racconta di una grande famiglia dell’alta borghesia danese, “i Klingenfeld”, riunita per festeggiare il sessantesimo compleanno del patriarca Helge.
Alla festa sono presenti anche i tre figli: Christian, Michael e Helene. Il momento di svolta sarà il discorso di auguri del figlio maggiore Christian che, una volta pronunciato, cambierà per sempre gli equilibri della famiglia, svelando ipocrisie e strappando via maschere.
La festa si trasforma in un gioco al massacro volto a mettere in discussione, in un crescendo di tensione, il precario equilibrio familiare fondato su rapporti ipocriti, segreti indicibili e relazioni di potere malsane.
L’opera scava all’interno dei tabù più scomodi, affrontando la relazione con la figura paterna, la verità, il rapporto con il potere e l’autorità imposta. Impossibile non pensare ad Amleto, alla tragedia greca, ma anche all’universo favolistico dei Fratelli Grimm.
La scelta registica di un uso drammaturgico radicale della cinepresa permette di sfruttare la possibilità di costruire costantemente un doppio piano di realtà che consegna allo sguardo degli spettatori la condizione di scegliere tra quello che viene costruito sul palcoscenico e la “manipolazione” che l’occhio della cinepresa rielabora in diretta e che viene proiettato.
Un gigantesco piano-sequenza, girato dagli stessi attori per tutto lo spettacolo e proiettato davanti allo sguardo della platea, amplifica, ironizza, dissacra e approfondisce il senso delle domande di Festen. Qual è la verità? Cosa scegliamo di guardare? A cosa scegliamo di credere?
Festen è il primo film realizzato da Thomas Vinterberg secondo i dettami del Dogma 95, manifesto che, redatto a Copenhagen nel 1995 dai cineasti danesi Søren Kragh-Jacobsen, Kristian Levring, Lars Von Trier e lo stesso Vinterberg, proclamava un «voto di castità» sulla tecnica cinematografica. Un dettame a cui, sia loro che gli eventuali aderenti al movimento, avrebbero dovuto seguire nel realizzare i loro film. Tutti gli orpelli erano vietati, si proclamava un cinema senza filtri, puro, privo di illusioni e di canoni predefiniti, in cui è «la vita interiore dei personaggi a giustificare la trama».
La semplicità nella realizzazione, l’incredibile mano del grande Vinterberg e il profondo significato politico sociale di critica alla società danese, fanno del film un cult fondamentale, tanto da vincere nel 1998 il Gran Premio della Giuria a Cannes (all’epoca presieduta da Martin Scorsese), numerosi Robert (gli Oscar nordici) e anche alcuni Independent Spirit Awards. Thomas Vinterberg si è aggiudicato nel 2021 il premio Oscar per il miglior film straniero con la pellicola Un altro giro.
NOTE DI REGIA
«Festen è un abisso. Anzi, mi torna in mente una battuta incredibile del Woyzeck di G. Büchner «Ogni uomo è un abisso, a ciascuno gira la testa se ci guarda dentro». Ecco, Festen mi fa questo effetto. Quando, nel 2020, ho iniziato a lavorare alla trasposizione teatrale del film cult di Thomas Vinterberg, ero affascinato dalla potenza delle dinamiche familiari e dall’impertinenza linguistica e formale con cui Vinterberg, Lars Von Trier e il Dogma 95 avevano rivoluzionato il cinema che li circondava. Ancora non sapevo l’abisso che mi aspettava…
Festen ci chiama in causa, ci sposta dall’indifferenza in cui pericolosamente rischiamo di scivolare ogni giorno di più, soprattutto in un tempo costellato da paure e incertezze come il nostro, un tempo di divertissement e entertainment mentre intorno a noi tutto si sgretola, un tempo in cui è facile voltare lo sguardo dagli orrori per continuare a dire: “Dopo questo piccolo – come potremmo definirlo – intermezzo, possiamo riprendere i nostri posti per proseguire la festa”, come i personaggi dello spettacolo, così come noi.
Festen sembra raccontare una festa di famiglia per celebrare i 60 anni del patriarca, ma in verità ha a che vedere con il nostro rapporto con la verità, con il potere e con l’ordine costituito. Sono sempre più sicuro che il nostro Festen sia una comunità di esseri umani che recitano una commedia mentre uno di loro (Christian) combatte come un pazzo per mostrare che in realtà sono tutti in una tragedia. Per questo, Festen è radicalmente politico.
Sento che in questa tensione tra due forze, così opposte e profonde, ci sia la forza del nostro spettacolo che ci porterà a mostrare quanto sia necessario strappare quel velo di Maya, quel diaframma che impedisce di vedere realmente le cose come stanno. Mi sembra molto toccante, attraverso Festen, poter chiedere al pubblico: “Perché non abbiamo la forza di vedere le cose come stanno? Perché accettiamo tutta questa finzione? Quanto coraggio richiede la verità?”. Certo, sono domande grandissime e non saremo noi a dare le risposte. Ma penso che l’onestà e il gioco profondo del nostro spettacolo stia nel condividerle con gli spettatori, con tutte le paure, le fragilità, la tenerezza e l’ironia che le accompagnano. Ma Festen ci ha fornito anche un incredibile materiale di ricerca e di sperimentazione del linguaggio. Ci siamo spinti verso un radicale uso drammaturgico della cinepresa per sfruttare la possibilità di costruire costantemente un doppio piano di realtà che consegnasse allo sguardo degli spettatori la condizione di scegliere tra quello che viene costruito sul palcoscenico e la “manipolazione” che l’occhio della cinepresa rielabora in diretta e che viene proiettato. Con un gigantesco piano-sequenza che lungo tutto lo spettacolo verrà girato dagli stessi attori e proiettato davanti allo sguardo della platea, cerchiamo di amplificare, ironizzare, dissacrare e approfondire il senso delle domande di Festen. Qual è la verità? Cosa scegliamo di guardare? A cosa scegliamo di credere?
Tutto questo fino a quando il sottile velo che divide la verità dalla sua immagine, non cadrà, non scomparirà una volta per tutte, lasciando spazio al silenzio, al vuoto, alla meraviglia della presenza degli attori che hanno reso possibile questa “follia”; alla meraviglia dei loro corpi, alle loro vibrazioni più sottili e alle loro emozioni, alla realtà insostituibile della loro sincerità…».