Marcello è un toelettatore di cani gentile e amorevole, che vive, benvoluto da tutti, in un degradato quartiere periferico. Separato e padre di una bambina, con cui ha instaurato un bellissimo rapporto, l’uomo subisce la violenza fisica e psicologica di Simoncino, un ex pugile a cui procura la cocaina e che terrorizza l’intero quartiere. Dopo l’ennesima sopraffazione, però, che gli fa perdere l’amicizia degli altri abitanti, Marcello decide di non chinare la testa e di riaffermare la propria dignità.
Dopo Il racconto dei racconti, Matteo Garrone torna con Dogman dalle parti de L’imbalsamatore e, ispirandosi con molte libertà alla vicenda del Canaro della Magliana, realizza il suo film più doloroso e potente.
Nella periferia degradata e uggiosa di Castel Volturno, con i palazzi decadenti, le strade invase da pozzanghere, le sale di slot machine e i ComproOro, spunta il salone per cani del mite Marcello: un uomo buono, apprezzato da tutti e premuroso verso i suoi animali e la figlioletta Alida.
In questo microcosmo sospeso, che strizza l’occhio alla criminalità, prende vita un’opera a metà strada tra il melò e il western suburbano, che fa scontrare il protagonista gentile con la bruttezza di un mondo dominato dalla violenza e dalla legge del più forte.
Garrone inquadra splendidamente l’ambiguità del rapporto tra il malvivente che sparge il terrore nel quartiere e l’indifeso “canaro”, affidandosi alle facce e alla fisicità degli straordinari Marcello Fonte ed Edoardo Pesce. E come aveva fatto ne L’imbalsamatore, scava in profondità nell’intimità dei due uomini, tirando fuori la tenerezza e la violenza, la paura e la sopraffazione, la lealtà e il tradimento.
Gradualmente sentiamo crescere una tensione, un malessere e un senso di impotenza che quasi ci soffocano: la dolcezza e la bontà di Marcello vengono messe a dura prova dalle continue umiliazioni, facendo emergere l’aspetto più primitivo dell’essere umano, quella furia animale e distruttrice che chiede vendetta.
Un aspetto che, in fondo, ci riguarda tutti e che ci spinge a interrogarci nel profondo, mettendoci di fronte alle conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere, a quei “sì” che siamo costretti a dire e che a volte vincolano per sempre le nostre vite.
Perché ciò che racconta Dogman è l’esperienza di un uomo che vede nel farsi voler bene il suo scopo principale e che tenta disperatamente di riscattarsi dopo che ha ormai perso tutto. Un uomo che si illude di aver liberato, con il suo gesto, non solo se stesso, ma anche chi gli ha voltato le spalle e che è pronto a riconquistare. Un uomo che spera che tutto torni come prima e di essere riabilitato come un piccolo grande eroe, ma che si accorge, tristemente, che dinanzi a sé ci sono solo solitudine e indifferenza.
Asciutto, dolente, girato e fotografato (da Nicolaj Bruel) con grande raffinatezza, Dogman non cade nella trappola della truculenza, ma racconta la paura e il rapporto vittima/carnefice con una forza inedita, mettendo in scena una violenza più psicologica che fisica, e per questo ancor più terribile.
Un’opera perfetta in ogni dettaglio, dai volti delle comparse alla scelta dei meravigliosi comprimari (Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, ecc.), segno che il cinema italiano è ancora vivo e vegeto.
Alberto Leali