L’ultimo lavoro di Tarantino è un gustoso cocktail di ironia ed elegia, sbruffonaggine e malinconia: un film “diverso” che spiazza per complessità e ricchezza. Vincitore di 3 Golden Globe e 2 Premi Oscar
C’era una volta… a Hollywood è forse il film più complesso e anomalo della filmografia di Quentin Tarantino.
Non che il regista di Pulp Fiction non avesse già celebrato la magia e la grandezza del cinema, ma stavolta, il suo amore per la settima arte tradisce un romanticismo malinconico e tenero, che era del tutto assente nelle opere precedenti.
Nel suo continuo gioco di immersioni dentro e fuori dal set, nei suoi audaci flashback e nella sua liberissima mescolanza di toni e registri, C’era una volta… a Hollywood è infatti una profonda riflessione sulla natura stessa dell’essere attore e sugli incessanti mutamenti dell’industria cinematografica.
Come protagonisti, Tarantino sceglie un attore di serie B e la sua controfigura: inseparabili, i due sembrano sognare ciascuno la vita dell’altro, mentre le rispettive carriere colano a picco sotto il peso dei fallimenti e delle frustrazioni.
Il primo, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), costretto a prendere atto del proprio declino e ad accettare parti negli odiati spaghetti western, abita in Cielo Drive accanto alla lussuosa residenza di Roman Polanski (Rafał Zawierucha) e Sharon Tate (Margot Robbie), il secondo, Cliff Booth (Brad Pitt), è il suo fedele amico e factotum, abita in una roulotte col suo pitbull e ha un passato piuttosto oscuro.
Tarantino dipinge splendidamente il legame simbiotico che unisce i due uomini, entrambi anelli di una Hollywood che sta cambiando e che non ha più bisogno di loro: il 1969, infatti, è un anno di svolta per il cinema americano, a causa dell’avvento della New Hollywood, ma anche della terribile ferita che la strage di Bel Air infligge alla “Fabbrica dei Sogni”.
Mette in scena, così, un vero e proprio elogio dell’amicizia, del rispetto e del lavoro, un’ode a chi il cinema lo fa, non importa se in sala o in televisione. Il suo è uno smisurato atto d’amore per il cinema di Steve McQueen e Bruce Lee, per i western di serie B, per le produzioni televisione poliziesche degli anni Sessanta, per le sale oscure e la pellicola (non a caso il film è girato in 35mm).
“Ho visto e vissuto molte delle cose che ho girato in questo film – racconta Tarantino alla conferenza stampa di presentazione del film – e ci ho inserito anche diverse pellicole che amo. Non è ormai un mistero ch’io abbia un debole per i B-Movies, specie per quelli italiani, che hanno straordinariamente reinventato dei vecchi generi. Questo film è un omaggio a quegli artigiani bravissimi di un cinema che non si fa più, perché il risultato lo fanno le persone e non gli strumenti. Con questo non voglio dire che non apprezzi il digitale, che anzi è di grande aiuto per un regista, ma non ha la stessa magia della pellicola“.
C’era una volta… a Hollywood è un omaggio affettuoso, ma anche un affresco preciso di un’epoca perduta, quella del cinema dell’infanzia del regista, che lo ha trasformato nel famelico cinefilo che è oggi.
“Sembrava di essere lì, di rivivere le stesse emozioni della Hollywood dell’epoca – rivela Margot Robbie alla conferenza stampa del film –. Amo molto i film di quel periodo, ma penso che anche oggi si stia vivendo un momento di cambiamento simile a quello. Quentin è stato bravissimo nel descrivere come in questo settore tutto cambia velocemente”.
Come in Django Unchained e Inglourious Basterds, Tarantino non smette, inoltre, di credere nella funzione taumaturgica del cinema, capace di cambiare e reinventare la Storia, proprio come se la finzione potesse deflagrare la realtà.
Il finale di C’era una volta… a Hollywood è infatti un regalo che il regista fa agli spettatori perché godano della magia del cinema, perché possano tornare a sognare, nonostante la brusca irruzione della Storia.
Ed è per questo che C’era una volta… a Hollywood è meno pirotecnico e adrenalinico, ma più intimo, contemplativo, stratificato, digressivo. Forse è il film che Tarantino ha sempre sognato di fare ma che fino ad ora non aveva mai potuto realizzare. Ecco perché chi in un regista cerca il marchio, pretendendo, forse inconsciamente, che faccia sempre la stessa cosa, non può che rimanere spiazzato dall’ultima fatica tarantiniana, così sorprendentemente “diversa” e matura.
Sono molte le sequenze degne di nota in C’era una volta… a Hollywood, dall’omaggio alla cinematografia nostrana di quegli anni, attraverso Dalton impegnato in film “immaginari”, al combattimento fra Cliff/Brad Pitt e Bruce Lee/Mike Moh; dalla sequenza ricca di suspense allo Spahn’s Movie Ranch, occupato dai seguaci di Charles Manson, a Margot Robbie che osserva emozionata nel buio della sala la performance della vera Sharon Tate in The Wrecking Crew.
Il resto lo fanno le interpretazioni di Leonardo DiCaprio e Brad Pitt: il primo è straordinario per capacità di mutare continuamente registri, dando vita a una prova che è seconda solo a quella di The Wolf of Wall Street; il secondo è perfetto nel ruolo di ombra, volutamente più trattenuto e sornione, ma con improvvisi slanci di violenza.
“Oggi, quando scelgo una parte, mi chiedo quale regista possa in qualche modo migliorarmi, portarmi a superare nuove sfide e ad esplorare nuovi territori: beh, Quentin è sicuramente uno di questi!”, afferma DiCaprio alla conferenza stampa di presentazione del film.
Non mancano nemmeno dei gustosissimi camei di attori che a loro modo lasciano il segno: da Al Pacino a Kurt Russell, da Michael Madsen a Bruce Dern, da Dakota Fanning a Luke Perry.
C’era una volta… a Hollywood ha vinto 3 Golden Globe su 5 candidature, tra cui quello per il miglior film commedia o musicale, e 2 Premi Oscar su un totale di 10 candidature (scenografia e attore non protagonista a Brad Pitt).
Alberto Leali