A 35 anni dal capolavoro di Ridley Scott, il canadese Denis Villeneuve, già distintosi per il riuscito fantascientifico Arrival, realizza non un semplice sequel, ma una sorprendente reinvenzione dell’universo del prototipo.
Blade Runner 2049, infatti, pur rispecchiando la griglia narrativa della matrice, ricrea, con grande ricchezza di trovate, un mondo e la sua moltitudine di nuovi personaggi.
Villeneuve amplia, estende e gradualmente si allontana, non manifestando alcun timore reverenziale, bensì una propria potente indipendenza autoriale.
Soffermarsi sulla trama di Blade Runner 2049 sarebbe delittuoso, oltre che quasi impossibile. Diciamo soltanto che a prendere il posto del Rick Deckart di Harrison Ford c’è adesso l’agente K, il Blade Runner interpretato da Ryan Gosling, che dà la caccia agli ultimi replicanti della Tyrell rimasti. Nel frattempo, infatti, lo scienziato cieco Niander Wallace (Jared Leto) ne ha creati di nuovi e più obbedienti. K, però, scopre casualmente qualcosa sui replicanti che potrebbe cambiare per sempre il corso del mondo. Ma per andare fino in fondo dovrà disobbedire agli ordini del suo capo Madame (Robin Wright) e vedersela con Wallace e il suo feroce braccio destro Luv (Sylvia Hoeks).
Villeneuve conferisce alla Los Angeles notturna, piovosa e sovraffollata di Blade Runner un aspetto ancor più degradato e devastato, a causa del crescente inquinamento climatico: neve insistente, deserto, distese di ferraglie e rifiuti e una grande muraglia protettiva su cui si abbattono le onde oceaniche.
A regnare nell’universo di Villeneuve sono adesso i colori dell’ocra e del rosso che il talentuoso direttore della fotografia Roger Deakins combina in uno scenario polveroso e post apocalittico che incanta. Ma assolutamente straordinari sono anche la scenografia e gli effetti speciali (vedasi la scena d’amore fra Gosling e Ana De Armas), oltre che il sonoro e le musiche di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch, che omaggiano con raffinatezza lo score originario dei Vangelis.
Se sul piano visivo Blade Runner 2049 ha i suoi più evidenti punti di forza, non bisogna affatto sottovalutare l’ambizioso lavoro della sceneggiatura di Hampton Fancher e Michael Green nel creare qualcosa di coerente con lo spirito del prototipo, ma allo stesso tempo di profondamente diverso.
Blade Runner 2049 è, infatti, l’affresco di un futuro cupo, disperato, desolante, dove a regnare sono solitudine, frustrazione, dubbi, desideri inesplicati. Un mondo in cui i ricordi non sono reali, ma solo degli innesti creati a tavolino: dove si sogna la possibilità di aver in qualche modo vissuto, dove ci si deve accontentare di ologrammi che diano la parvenza del reale e dove l’umanità è un concetto ormai difficilmente esplicabile.
A tal proposito, riuscitissimo è il personaggio di Ryan Gosling, che incede solo, silenzioso, immerso nei dilemmi morali ed esistenziali, e soprattutto alla ricerca di un’identità che non sa nemmeno se possiede. Harrison Ford, di tenebrosa imponenza, fa, invece, il suo ritorno a racconto avanzato, ma il suo ruolo è indispensabile per tirare tutte le fila della vicenda. Indimenticabile la sequenza psichedelica della lotta tra lui e Gosling nel night club di una Las Vegas abbattuta, mentre l’ologramma di Elvis Presley canta a intermittenza, tra continui disturbi di connessione.
Splendidi i personaggi femminili, dalla Madame di Robin Wright, alla Joi di Ana De Armas, in una versione un po’ alla “Her” di Spike Jonze, all’efferata Luv di un’intensissima Sylvia Hoeks. Insomma, un film destinato, forse, a diventare un cult come il suo insigne predecessore.
Alberto Leali