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Jason Statham, attore simbolo dei film d’azione, torna sul grande schermo con A Working Man, un’opera che, nonostante l’apparente potenziale, non riesce a decollare. In questa pellicola, il protagonista, Levon Cade, un ex Royal Marine che lavora nel settore edile, si ritrova coinvolto nella caccia a una banda di trafficanti di esseri umani dopo il rapimento della figlia di un suo amico. Una trama che si snoda tra colpi di scena forzati, combattimenti e uno sviluppo dei personaggi che lascia parecchio a desiderare.
La sceneggiatura, scritta da Sylvester Stallone e David Ayer, porta in scena un tentativo di esplorare il tema della giustizia sociale, ma il risultato è una serie di scontri insensati e dialoghi che non colpiscono mai nel segno. Levon, che si infiltra tra bande di motociclisti e trafficanti, sembra quasi invincibile, e il film non riesce a trasmettere il minimo senso di rischio o pericolo. La sua determinazione è quasi noiosa, in quanto ogni confronto con i cattivi si risolve con una rapidità eccessiva, come se l’invincibilità del personaggio fosse il motore stesso del film, sacrificando qualsiasi tensione narrativa.
L’idea di un’azione brutale e immediata che caratterizza il film non trova mai una sua giustificazione emozionale. La regia di David Ayer, purtroppo, non riesce a sfruttare appieno il carisma di Statham, che appare sempre più metodico nei suoi combattimenti, riducendo quella che una volta era la sua energia atletica in sequenze statiche e ripetitive. A questo si aggiunge una alternanza di stili visivi incoerenti, passando da una chiarezza digitale a una grana che sembra richiamare un’estetica anni 2000, senza riuscire mai a creare una continuità che faccia sentire il pubblico coinvolto.
Il film cerca di costruire una tensione tra il protagonista e i suoi alleati, ma questa dinamica risulta superficiale e priva di vero spessore. La figura di Levon si sovrappone spesso a quella di un antieroe solitario che, seppur rozzo e ruvido, è l’unico in grado di affrontare la corruzione e l’ingiustizia sociale. Tuttavia, questo ruolo da “lavoratore della classe operaia che fa giustizia” è tanto prevedibile quanto limitato, un concetto che Stallone e Ayer sfruttano più per compiacersi di un’iconografia cinematografica già ampiamente utilizzata che per offrire qualcosa di nuovo.
Non mancano tentativi di approfondire il personaggio di Levon, come il suo passato militare e il trauma derivante dalla morte della moglie, ma questi elementi vengono trattati in modo frettoloso e superficiale. Le scene che avrebbero dovuto esplorare la sua psicologia, come il momento in cui la figlia gli parla del suicidio della madre, sono prive di qualsiasi carica emotiva e sembrano più un riempitivo che una vera opportunità di esplorare il dolore del protagonista.
Uno degli aspetti più deboli del film è la sceneggiatura, che cerca di inserire battute ad effetto e frasi filosofiche che non riescono mai a emergere come convincenti. Dialoghi come “Non mi fido delle persone, mi fido della biologia” suonano più come un espediente per riempire il vuoto che una riflessione autentica sul personaggio. Anche le interazioni tra Levon e i suoi compagni di avventura, come il soldato cieco interpretato da David Harbour, sono troppo meccaniche per suscitare interesse o empatia.
Il film non riesce nemmeno a sfruttare il potenziale delle scene d’azione. Sebbene ci siano alcuni momenti che avrebbero potuto essere divertenti, come le battaglie sul posto di lavoro o gli scontri con i cattivi, la regia non riesce a conferire loro quella qualità dinamica che ci si aspetterebbe da un film del genere. Piuttosto che essere momenti di adrenalina pura, queste scene diventano rapidamente una ripetizione stancante di colpi e grugniti.
La pellicola non manca di momenti grotteschi, come i costumi improbabili dei personaggi secondari, che vanno dalle tute da ginnastica sfoggiate dai membri della mafia russa a abiti che sembrano usciti da un party in maschera mal riuscito. La scelta estetica non è mai all’altezza della situazione e contribuisce a distrarre dallo sviluppo della trama, peggiorando ulteriormente la sensazione di disconnessione che il film trasmette.
In conclusione, A Working Man è un film che non soddisfa le aspettative né degli appassionati di azione né di quelli che sperano di vedere un personaggio complesso svelato in tutta la sua profondità. La trama prevedibile, le scelte registiche incoerenti e la sceneggiatura forzata fanno sì che il film non raggiunga mai il livello delle migliori pellicole di Jason Statham. Cosi, invece di offrire una riflessione interessante sul suo personaggio e sulle sue motivazioni, il film finisce per risultare una serie di sequenze di azione meccaniche e poco ispirate. Peccato!
Maria Grande