Senza impartire lezioni o affrontare convenzionalmente tematiche sviscerate in tanti film sull’Olocausto, Paradise del regista russo Andrei Konchalovsky pone interrogativi e non offre necessariamente risposte. Perché, d’altronde, chiedersi come si è potuto credere al sogno della perfezione razziale vagheggiato dalla retorica nazista, il cosiddetto “Paradiso” del titolo, non è certo una domanda a cui è possibile dare una risposta precisa.
L’impostazione del film è evidentemente teatrale, con tre personaggi, un ufficiale tedesco di alto rango delle SS, una prigioniera aristocratica russa rea di aver nascosto dei bambini ebrei e un poliziotto francese collaborazionista, interrogati da un’oltretomba/tribunale, che ripercorrono le loro esperienze legate ai campi di sterminio.
Nei loro racconti, si susseguono confessioni, certezze, condizionamenti, sensi di colpa, facendo emergere prepotentemente il conflitto tra i codici dell’etica e la lotta per la sopravvivenza, senza alcuna traccia di enfasi, manicheismo o moralismo.
Paradise cresce poco per volta (la prima parte può risultare un po’ farraginosa) e diviene riflessione ampia e profonda sul XX secolo e le sue illusioni e variabile bilancio dai punti di vista di vittima e carnefice.
L’impeccabile regia (Leone d’argento a Venezia 2016) e lo splendido bianco e nero di Aleksandr Simonov illuminano un film inedito e importante, che racconta l’orrore da dentro, mescolando lo stile documentaristico, che tratta l’inferno dell’occupazione e dei campi di concentramento, con toccanti ed efficaci incursioni nel melodramma.
Il curioso formato 4:3 e il ricorrente utilizzo della camera fissa e del fuori campo caratterizzano un’opera fortemente autoriale, solennemente austera e di grande dignità.
Alberto Leali