C’è chi pensa, forse a ragione, che per adattare felicemente per il cinema un’opera di Stephen King occorra in qualche modo tradirla, un po’ come è successo a Stanley Kubrick con Shining.
Anche la trasposizione filmica del primo capitolo del monumentale IT, da molti considerato fra i capolavori dello scrittore del Maine, tradisce il testo d’origine trasferendo l’ambientazione della storia dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80, ma rimanendo, nello spirito, nei temi e nelle atmosfere, una versione fedele, per quanto necessariamente ridotta, del romanzo.
Ma che cos’è IT? Innanzitutto un coming of age a tutti gli effetti, una profonda metafora della perdita dell’innocenza, attraverso il racconto di un gruppo di ragazzini, a cavallo tra l’infanzia e l’età adulta, che si trova di fronte al male del mondo e alla sua potenza predatrice. Qualcosa di informe e indefinibile, ma che provoca effetti terribili sulle vite dei giovani protagonisti, che, per questo, non possono più ignorarlo e chiudere gli occhi.
Sotto questo punto di vista, il film di Andy Muschietti è molto riuscito, in quanto caratterizza benissimo i giovani personaggi, il loro modo di interagire, i loro gesti, le loro paure, i loro giochi, le loro pulsioni, la loro rabbia. Ragazzi emarginati e spesso bullizzati, che si trovano ad affrontare da soli, forti solo della loro reciproca solidarietà, problematiche più grandi di loro, in assenza di qualsiasi supporto valido da parte di adulti distratti, indifferenti o nocivi.
Muschietti dirige un cast di giovanissimi e straordinari attori, affidando loro dialoghi credibili e battute sagaci e facendo emergere, prendendosi tutto il tempo necessario, la tenerezza, l’amicizia, la forza che quasi senza accorgersene finiscono per legarli. Il risultato è più vicino a Stand By Me, E.T. o Stranger things che alla miniserie degli anni ’90.
Molto interessante è il personaggio di Beverly Marsh, interpretato da una bravissima Sophia Lillis, unica ragazza del “gruppo dei perdenti”, oggetto del desiderio delle prime pulsioni sessuali dei suoi nuovi amici, ma anche il personaggio più completo, accattivante, autonomo.
Ma l’IT di Stephen King è anche una feroce riflessione sulla violenza e il male nella periferia americana: i “grandi” che continuano a vivere normalmente nonostante il tributo di sangue pagato dalla cittadina è uno degli aspetti più potenti e inquietanti del libro. Il Male che alberga sottoterra, nelle fogne, non è quindi che il riflesso di quello che vive al di sopra. E’ Derry, infatti, tipica cittadina della provincia americana, che cova al suo interno la creatura maligna che da secoli si nutre dell’ipocrisia e della crudeltà dei suoi abitanti: basti vedere personaggi come la madre di Eddie o il padre di Beverly, per comprendere come essi siano anche peggiori del clown Pennywise.
Le mostruose apparizioni di quest’ultimo, pur se meno inquietanti rispetto a quelle della famosa miniserie anni ’90, hanno un notevole impatto visivo, grazie soprattutto a un molto più ampio utilizzo di effetti speciali, prevalentemente digitali.
Il Pennywise di Bill Skarsgård è un mostro imprevedibile e dalle molteplici maschere e capacità mimetiche, proprio perché sempre diversa è la forma che l’inconscio conferisce alle paure, le uniche in grado di alimentare il perfido clown. Diversamente dal Tim Curry della miniserie, Skarsgård fa paura con gli jump scare, i denti aguzzi, gli occhi che si infuocano e il ghigno mostruoso, laddove il primo spaventava in modo molto meno artefatto ma più incisivo, coniugando comicità sardonica e insensata malignità. Il Pennywise di Curry ha, di fatto, creato un nuovo standard di paura, perché più simile a uno psicopatico perverso tutto sorrisi, risatine, battute e movenze esagerate, che a un mostro malefico dall’espressione temibile che si muove nella penombra: il che è sicuramente meno fedele al romanzo di King, ma anche molto più terrorizzante. Ciò che manca al nuovo Pennywise è proprio ciò che più ha inciso nell’immaginario collettivo negli anni ’90, ovvero il contrasto tra il realistico e il terrificante, con quell’assassino così simile nelle sembianze e negli atteggiamenti ai veri clown, ma dalle intenzioni affatto ludiche.
Eppure, il tentativo di Muschietti di riportare in vita l’immaginario del romanzo di King può dirsi pienamente riuscito, perché, fedelissimo al romanzo, regala molte sequenze che sembrano prendere vita dalle pagine del libro, con un occhio molto attento ai dettagli e alla psicologia dei personaggi.
Alberto Leali