120 battiti al minuto è il terzo lungometraggio di Robin Campillo, montatore e co-sceneggiatore di quasi tutti i film di Laurent Cantet, che qui racconta la militanza, nei primi anni ’90, dei giovani di Act Up-Paris, associazione che ha voluto rompere il silenzio generale sull’epidemia di AIDS, che da oltre dieci anni mieteva vittime nel Paese.
Forti, scioccanti, sconsiderate: le azioni di protesta di Act Up si moltiplicano nella capitale francese; tra i suoi membri, i dibattiti sono frequenti e accesi, ma la finalità è la stessa: scuotere l’opinione pubblica. Il neofita Nathan, uno dei pochi scampati alla malattia, resta colpito dalla vitalità e dall’attaccamento alla causa del compagno Sean, uno dei militanti più radicali del movimento e sieropositivo. Tra i due inizia una relazione appassionata, che purtroppo è destinata presto a concludersi.
Militante di Act Up-Paris, Robin Campillo restituisce con 120 battuti al minuto, l’energia prodotta dalla rabbia e dalla consapevolezza che la lotta che si stava intraprendendo fosse giusta e condivisa. “Nel 1982 avevo 20 anni – afferma Campillo in occasione della conferenza stampa romana di presentazione del film – L’epidemia dilagava e io ne ero terrorizzato. L’anno successivo frequentavo la Scuola di Cinema, ma il cinema che studiavamo, che era fondamentalmente quello Nouvelle Vague, non mi permetteva di comprendere il fenomeno Aids. Con Act Up, associazione nata prima a New York e poi diffusasi anche in Europa, capii che non bisognava avere paura e decisi di entrarci“.
Campillo ci conduce nei lunghi dibatti interni dell’associazione e nelle aggressive azioni dimostrative tese a risvegliare le coscienze. “Nel mio film non mi ha interessato tanto far luce sulla malattia – dice Campillo – ma sulla forza politica, sullo scambio, sulla condivisione dei membri dell’associazione. Quando militavo fra le fila di Act Up, guardavamo ai modelli inglese e tedesco, che erano molto più pragmatici di quello francese. Lavoravamo molto nella lotta ai laboratori farmaceutici e alla loro politica di mettere in concorrenza i vari Paesi. Ci facevano credere di non poter produrre abbastanza medicinali per tutti“.
Nel gruppo di attivisti descritto dal film non mancano divergenze e scontri sulle strategie e sui metodi da adottare: Campillo li esplora, mettendo in scena il dibattito con la stessa naturalezza e precisione che caratterizzava le discussioni di “La classe” di Laurent Cantet. “Io e Laurent abbiamo frequentato la stessa Scuola di Cinema – dice Cambillo – Anche per lettera, capitavamo spesso negli stessi gruppi. Quando sono entrato ad Act Up, ci siamo persi di vista, per poi ritrovarci alla fine degli anni 90, quando lui era regista e io sceneggiatore. Abbiamo appreso molto l’uno dall’altro e insieme abbiamo lavorato soprattutto sulla “riumanizzazione” delle immagini, inevitabilmente un po’ fredde, girate in digitale”.
Campillo fa la scelta narrativa di affiancare alla ricostruzione accurata degli eventi la storia d’amore tra Sean e Nathan, raccontata senza edulcorazione e retorica ed esplorata fin nell’intimità. “In quel periodo volevamo ballare, festeggiare, amare, divertirci. Era un modo di lottare contro la morte e il dolore”, afferma il regista. Il film diviene, così, un perfetto equilibrio tra il ritratto del gruppo e quello dei diversi individui che lo compongono.
La musica house accompagna diverse sequenze del film: “Era la musica dell’epoca, festosa, ma al contempo inquieta e malinconica. Mi ha permesso di restituire gli aspetti più sensoriali di quel tempo”.
Un cast di attori notevoli, tra cui spiccano i bravissimi Nahuel Pérez Biscayart nel ruolo di Sean e Arnaud Valois (anche lui presente a Roma) in quello di Nathan, rende i personaggi perfettamente credibili. “Il casting è stato lunghissimo – dice Campillo – Una volta fatte le scelte, ci sono stati 3 giorni di prove e poi abbiamo riscritto i dialoghi. C’è dell’improvvisazione, certo, ma la sceneggiatura è molto precisa. Ci tenevo, però, che gli attori potessero essere il più possibile sciolti, di modo da recitare con la massima naturalezza e spostarsi liberamente sul set. Ho utilizzato più camere per armonizzarle ai movimenti degli attori”.
120 battiti al minuto è un’opera di grande impegno civile, che ci ricorda che l’AIDS, pur se crea oggi meno inquietudine che in passato, non è ancora un capitolo chiuso. “All’epoca avere l’AIDS era una sentenza di morte e c’era molta paura a fare il test – ricorda il regista – Oggi la situazione è cambiata, i trattamenti sono molto efficaci e non più così nocivi, si può vivere pur avendo la malattia. Eppure, molti ancora temono di fare il test e spesso evitano di curarsi, arrivando a uno stadio molto avanzato della malattia“.
120 battiti al minuto ha ottenuto il Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes ed è attualmente in lizza per l’Oscar come miglior film in lingua straniera. Dal 5 ottobre in sala, distribuito da Teodora Film.
Roberto Puntato