Film di chiusura di Venezia 81, arriva al cinema dal 6 marzo con 01 Distribution
Tratto dal romanzo omonimo, L’Orto Americano di Pupi Avati si inserisce con grande eleganza nel panorama del gotico, tornando a esplorare atmosfere inquietanti e misteriose, già tipiche del cinema del regista bolognese, ma con una consapevolezza nuova, che arriva con la maturità.
Ambientato nel 1945, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il film narra la storia di un giovane scrittore (Filippo Scotti) che, in un barbiere di Bologna, incrocia lo sguardo di una soldatessa americana (Mildred Gustafsson) e se ne innamora perdutamente. Un anno dopo, si trasferisce negli Stati Uniti, dove vive in una casa vicina a quella della madre della ragazza (Rita Tushingham). Quest’ultima, da tempo non ha più notizie della figlia, scomparsa dopo averle scritto di voler sposare un italiano. Da quel momento, il giovane decide di tornare in Italia e di intraprendere una ricerca per ritrovare la donna di cui si è innamorato. La verità che si svela lo porterà ad affrontare situazioni sempre più oscure e terrificanti.
Avati mescola atmosfere noir e citazioni a classici del cinema americano degli anni Quaranta. L’ombra di Alfred Hitchcock è ben presente in più di un momento, ma anche il fascino del “gotico padano”, che Avati stesso ha inventato in film come La casa dalle finestre che ridono, emerge in tutta la sua potenza, evocando una dimensione esoterica che si nasconde dietro la nebbia e tra le rovine di un paese segnato dalla guerra.
Ma L’Orto Americano non è solo un gioco di rimandi a maestri del passato, è un film che riflette sulla memoria storica e sull’eredità del conflitto, mostrando la difficoltà di un’intera generazione nel fare i conti con il trauma del dopoguerra. La condizione psichica del protagonista, che pare dialogare con i morti, diventa una metafora potente del disorientamento e del vuoto che pervade l’Italia nel secondo dopoguerra. Il contrasto tra la sua ricerca dell’amore perduto e la brutalità della guerra e della morte diventa il cuore pulsante della storia, mettendo in scena l’impossibilità di sfuggire ai propri fantasmi.
Esteticamente, il film è un capolavoro di fotografia in bianco e nero, grazie al lavoro di Cesare Bastelli, che riesce a rendere ogni scena un dipinto gotico, creando un’atmosfera densa di tensione e mistero. La cura per i dettagli visivi è una delle forze del film, che attraverso il suo uso del colore – o meglio, della sua assenza – riesce a evocare una sensazione di malinconia che pervade l’intera pellicola. La scelta del bianco e nero non è solo una questione stilistica, ma un espediente che amplifica il senso di alienazione e decadenza, fondamentale in un’opera che riflette sulle cicatrici lasciate dalla guerra e dalla morte.
Il film si muove tra il poetico e l’inquietante, riuscendo a coniugare l’elemento fantastico con una riflessione sulla realtà storica e sociale dell’Italia. Il ritorno all’horror gotico di Avati non è solo una scelta di genere, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti, una rievocazione di una parte della sua filmografia che resta saldamente legata alla memoria e alla tradizione del cinema. L’Orto Americano, quindi, è un omaggio al passato, ma anche il tentativo di fare i conti con il presente, come dimostra la figura del giovane scrittore, simbolo di una generazione che tenta di scrivere la propria storia nonostante la nebbia del trauma e della memoria.
L’aspetto più debole del film risiede in una sceneggiatura che a volte sembra inciampare in una struttura un po’ sfilacciata. Alcuni snodi narrativi risultano forzati e alcune soluzioni stilistiche sembrano più scontate di quanto ci si sarebbe aspettati da un regista del calibro di Avati. Tuttavia, questi momenti di incertezza non offuscano il valore complessivo dell’opera, che resta un’esperienza affascinante e inquietante.
In definitiva, L’Orto Americano è un film che mescola la nostalgia per un’epoca passata con la consapevolezza che la morte, il mistero e l’amore sono temi universali che attraversano le epoche. Pupi Avati, a 85 anni, dimostra di essere ancora capace di creare un’opera potente e complessa, che parla al cuore e alla mente, senza mai rinunciare alla sua visione autoriale. Una riflessione sulla condizione umana, sull’amore e sull’orrore, sulle cicatrici lasciate dalla storia e dai suoi fantasmi.
Alberto Leali