Dall’amato bestseller di Maylis de Kerangal, la regista Katell Quillévéré trae il suo terzo lungometraggio Riparare i viventi, film a nostro parere riuscito pur con qualche riserva. L’incipit è potente e suggestivo, forse la parte più bella (e fin troppo promettente) del film, che vede il giovane Simon uscire silenziosamente dalla finestra della stanza della sua ragazza e raggiungere in motorino, per la città quasi deserta, i suoi amici surfisti alle prime luci dell’alba. Le scene acquatiche sono fascinose, elettrizzanti e coinvolgenti, girate con grande perizia, abilità e gusto estetico tra splendide evocazioni sonore oltre che visive. La fotografia è fredda e vira sulle gradazioni di azzurro. Poi il terribile incidente d’auto che vede Simon finire in coma irreversibile. Da qui il film prende un’altra piega, purtroppo molto più convenzionale e meno interessante, in seguito alla scelta di uno stile di regia fin troppo pulito e a personaggi (la madre e il padre di Simon e l’equipe medica che prospetta la possibilità della donazione degli organi) e situazioni già visti. Poi ancora una rottura narrativa e si passa alla terza e ultima parte del film, la più intensa, con al centro la Anne Dorval ammirata spesso nei lavori di Dolan e la sua paura di morire da un momento all’altro a causa di una degenerativa patologia cardiaca. Pur concentrandosi anche stavolta su personaggi e situazioni appena abbozzati (omosessualità femminile, rapporto madre-figli, disagi del vivere quotidiano in seguito a una patologia invalidante), è infatti in questa terza sezione che la regista inserisce la lunga ed emozionante scena operatoria del trapianto di cuore, che rende il film a suo modo indimenticabile. Un’opera altalenante, dunque, eppure capace di raggiungere vertici di rara intensità emotiva, che ci regala un finale commovente e dolcemente liberatorio.
Alberto Leali