In concorso alla 74ª Berlinale, arriva al cinema dal 23 gennaio con Academy Two
In Il mio giardino persiano (My Favourite cake), il duo di registi iraniani Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha ci conduce in un viaggio intenso e malinconico attraverso i temi della solitudine, della resistenza e del controllo.
I cineasti, impossibilitati a lasciare l’Iran per presentare il film alla Berlinale a causa del ritiro dei loro passaporti e di un processo in corso, trasformano la loro opera in un atto di ribellione silenziosa e carica di significati.
La storia ruota intorno a Mahin (Lili Farhadpour), una vedova settantenne che vive sola a Teheran dopo che la figlia si è trasferita in Europa. In un quotidiano scandito da rituali solitari e ricordi, la protagonista decide di dare una scossa alla sua vita quando, durante una cena in un ristorante, nota Faramarz (Esmaeel Mehrabi), un tassista divorziato che mangia da solo. Da questo incontro nasce un’intima serata nella sua casa, fatta di cibo, danza e dialoghi, ma che prenderà una piega inaspettata, lasciando emergere tensioni profonde e riflessioni sull’oppressione sociale.
Come già in Ballad of a White Cow, presentato alla Berlinale nel 2021, Moghaddam e Sanaeeha tornano a tratteggiare un ritratto femminile dolente ma combattivo. Mahin, a differenza della protagonista del film precedente, però, sembra più libera e decisa, come dimostra nella scena in cui protegge una ragazza dalla polizia che cerca di arrestarla perché non indossa correttamente l’hijab. Tuttavia, questa apparente libertà si scontra con il soffocante controllo del regime, simbolizzato dalle visite invadenti della vicina di casa e dagli agenti che vigilano nelle strade.
La casa di Mahin diventa una metafora potente: non solo un luogo di intimità e memoria, ma anche una prigione silenziosa, dove il desiderio di vivere si scontra con la necessità di non attirare sospetti. Le ombre del cinema di Jafar Panahi sono palpabili, richiamando i luoghi chiusi di Taxi Teheran o di Closed Curtain, film in cui la stessa Maryam Moghaddam recitava. Come in quei lavori, il silenzio e l’oscurità diventano essenziali per sopravvivere.
Nonostante il tono leggero e quasi fiabesco di alcune scene, come l’incontro notturno tra i due protagonisti o la doccia vestiti, il film non perde mai la sua forza politica e simbolica. Ogni gesto e ogni dialogo racchiudono un messaggio di resistenza, nascosto dietro un’apparente ironia amara. La scena della telefonata interrotta con la figlia, che lascia Mahin in un vuoto comunicativo, è solo uno dei tanti esempi di una solitudine che non è mai solo personale, ma anche collettiva e culturale.
Il mio giardino persiano riesce a bilanciare con maestria il cambiamento di toni, alternando momenti di leggerezza onirica a improvvisi squarci di realtà. Questo equilibrio narrativo, unito alla solidità della scrittura, alla bravura degli interpreti e alla sensibilità con cui i registi affrontano i temi del controllo e della libertà, rende il film un’opera unica e necessaria.
Alla luce delle condizioni difficili in cui il film è stato creato e delle restrizioni imposte ai suoi autori, Il mio giardino persiano si rivela non solo un ritratto intimo e struggente, ma anche un atto di sfida politica mascherato da commedia amara. Una dimostrazione di come il cinema possa essere un’arma sottile e potente contro l’oppressione.
Paola Canali