Nel cast anche Lucia Mascino, Marina Rocco ed Elena Lietti. Dal 7 al 12 gennaio
Amleto². Un titolo che non mente: è un Amleto elevato al quadrato, moltiplicato e amplificato quello messo in scena da Filippo Timi nella nuova versione del suo spettacolo cult di 15 anni fa, in scena all’Ambra Jovinelli dal 7 al 12 gennaio.
Sregolato, esagerato, visionario – scegliete voi l’aggettivo – ma senza dubbio irresistibilmente spassoso.
Quando il sipario si alza, ci troviamo di fronte a una pista da circo, con la gabbia delle belve in primo piano e la paglia sparsa sul pavimento. È il “grande circo” del mondo trasposto a teatro: uomini e bestie in lotta, in una sorta di serraglio dove si riflette la follia della nostra epoca. Più che evocare le atmosfere espressioniste di Otto Dix o George Grosz, qui si respira un delirio contemporaneo, intriso di ironia, sarcasmo e citazioni pop.
Al centro della scena troneggia un’imponente seduta gotica: il trono di Amleto, avvolto in drappi rossi e circondato da veli eterei che richiamano presenze spettrali. Attorno ondeggiano palloncini, uno dei quali è legato persino alla punta della spada del principe. È una chiara dichiarazione di intenti: la tragedia si trasforma in gioco, e dentro questo gioco è necessario scavare per trovare un significato più profondo. Perché, a ben vedere, questo Amleto² potrebbe essere persino più fedele all’originale di molte seriose interpretazioni accademiche.
A distanza di circa quindici anni dalla prima versione, Timi riprende lo spettacolo con una maturità nuova, sia come attore che come regista. Dialoga apertamente con il pubblico, che esplode in risate a ogni battuta, trasformando l’opera in una sorta di Hamlet Horror Picture Show. Probabilmente, non troppo diverso da ciò che accadeva al Globe Theatre ai tempi di Shakespeare.
Timi si diverte a demolire il castello scespiriano, dissacrando tutto e tutti: dall’apprendimento della morte del padre al rapporto odioamoroso con Ofelia, dalla madre-meretrice intenta a sfiammare i propri orifizi consumati dai ripetuti rapporti sessuali alla caratterizzazione di un Amleto viziato e annoiato, che non ha più voglia di interpretare la solita solfa familiare né tantomeno di vendicare suo padre.
Tuttavia, il vero cuore dello spettacolo è il gioco metateatrale: il teatro dentro il teatro, con attori che entrano ed escono dai loro ruoli, svelando il processo stesso della creazione scenica. In una lucida riflessione sullo sdoppiamento tra l’attore e il personaggio, che è anche quella tra l’essere e il non essere (in questo senso si spiegano sia il monologo isolato dell’attrice infelice che le spassose comparsate di una sedicente Marilyn Monroe).
A circondare Amleto ci sono tre figure femminili, fondamentali nella rappresentazione. Marina Rocco interpreta una Marilyn «bionda dentro», che si trasforma perfino in un surreale fantasma paterno nella vicenda edipica. Elena Lietti veste i panni di una Ofelia preraffaellita, bloccata in un tormentone di battute sbagliate e ripetizioni comiche, che non smette di recitare la propria parte anche di fronte alla cinica riluttanza dell’amato, che per di più sembra prediligere la compagnia maschile. Ma la vera rivelazione è Lucia Mascino, una Gertrude esuberante e spudorata. Con una cofana di ricci che la fa sembrare quasi un giullare, detta i tempi al figlio Amleto, spronandolo senza mezzi termini: “Deflora quella poveraccia di Ofelia!”. La sua Gertrude osa sfidare ogni convenzione con un’energia travolgente e una mise che mescola ironia e sensualità, indossando guanti lunghi, scarpe rosso fuoco e brillanti che coprono appena il necessario.
Alla fine, Amleto non si abbandona alle lacrime, ma il pubblico esce dal teatro con il sorriso e, forse, una nuova consapevolezza. Timi ha saputo trasformare il dramma shakespeariano in un’esplosione di vitalità e riflessione, mescolando alto e basso con grande abilità e rendendo eterno il gioco del teatro.
Roberto Puntato