Al cinema dal 16 novembre distribuito da Lucky Red
Le vecchie querce secolari godono di un’innata aurea di sacralità e raccolgono, sotto le ampie fronde, storie e leggende. Nell’antica Grecia erano le regine degli alberi, consacrate a Zeus, venerate e considerate simbolo di lunga vita, maestosità e forza. I romani donavano una corona fatta di rami di quercia a colui che in guerra aveva dimostrato valore ed i Celti ne riverivano le maestose chiome e radici considerate magiche.
Anche il cinema, come il mondo dell’arte in generale, ha la sua saggia quercia: Ken Loach. Figlio di operai, Loach, che ha dedicato tutta la sua opera cinematografica alla descrizione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, ad ottantasette anni ci presenta la summa della sua eminente coerenza ideologica, un film manifesto che ha, appunto, un titolo evocativo: The Old Oak.
L’Old Oak del film è uno di quei posti che stanno lì da sempre e diventano, così, posti archetipici. L’Old Oak, con la sua “K” traballante dell’insegna, è l’unico pub aperto in un ex cittadina mineraria del nord est dell’Inghilterra. E’ l’unico luogo pubblico rimasto alla gente del posto per parlare, straparlare, bersi più di una pinta di birra.
TJ Ballantyne (Dave Turner) tiene in piedi questo vecchio locale con buona volontà, anche se la speranza se l’è dimenticata da un pezzo e rischia di perdere tutto quando nel quartiere vengono accolti alcuni rifugiati siriani. Lo Stato trova ai siriani una casa, alcuni volontari li aiutano ad ambientarsi, ma la gran parte del paese li chiama beduini. I siriani rubano il lavoro agli inglesi? No perché lì, di lavoro, non ce n’è più per nessuno dai tempi della Thatcher e del “leggendario” sciopero dei minatori negli anni ’80.
Così il pub di TJ, diventa la vecchia quercia della cittadina che tenta di circondare tutti, un crocevia di Mondi, di over sessanta depressi che vivono di ricordi, rabbia e stomaci vuoti e di nuovi arrivati, che vivono con cuori frantumati, famiglie separate e speranza.
TJ si interessa come un padre alla giovane Yara (Ebla Mari), mentre l’incontro con la comunità siriana diventa per lui un tentativo per aiutare due mondi paralleli a comprendersi e convivere. Yara, che guarda il Mondo attraverso una macchina fotografica, l’oggetto che più ha a cuore, è in grado di trasformare le immagini in documento per la memoria. Racconta ciò che vede, rende bello anche il brutto, cerca la bellezza anche nell’orrore di un campo profughi.
Loach, attraverso il filtro della macchina da presa, monitora attentamente il processo di trasformazione che ha interessato la low class negli ultimi tre decenni almeno. Cerca la verità, che non è sempre bellezza. Restituisce i fatti così come stanno, senza troppi fronzoli, senza troppi complimenti o finti moralismi.
Quella che ci presentano Loach ed il suo fedelissimo sceneggiatore Paul Laverty è una guerra fra poveri. La vittoria finale del capitalismo e della globalizzazione, dove una comunità capace di costruire la solidarietà intorno al lavoro comune è ormai un lontano ricordo. L’atto finale, quello in cui gli emarginati non se la prendono più con chi è al potere, ma con chi occupa un gradino inferiore della scala alimentare.
Come scriveva Abraham Lincoln: “Possiamo lamentarci perché i cespugli di rose hanno le spine o gioire perché i cespugli spinosi hanno le rose”. La cittadina in cui è ambientato il film di spine ne ha tante, come ne hanno le tante periferie europee, dove crisi economica, complesse dinamiche sociali, carenza di servizi e presidi territoriali, lasciano la popolazione in balia degli eventi. Ed è proprio lì che nasce la serpe del rancore, pronta a strangolare il capro espiatorio di turno.
La grande domanda che Laverty e Loach si pongono e rigirano a noi è: Possiamo ancora coltivarne germogli di solidarietà in un Mondo in frantumi? “Un giorno dovremo essere così organizzati e determinati da fare in modo che la solidarietà possa porre fine alla sofferenza e alla necessità di ricorrere alle lotte. Abbiamo già aspettato troppo a lungo. Forza, solidarietà, resistenza possono essere le parole per il nostro tempo. Ma io suggerirei – dice Loach – di aggiungervi: agitare, educare, organizzare. Perché senza l’organizzazione non potremo mai vincere la nostra battaglia per un mondo migliore”.
Il motto adottato TJ e Yara, lascia intravedere una soluzione: “Mangiamo insieme, restiamo insieme”. Potrebbe ripartire da questo l’idea di una comunità organizzata dove, attenzione (!), la solidarietà non è carità, ma è sedersi allo stesso tavolo per condividere?
Ebla Mari, che interpreta Yara, è una delle scoperte di quest’opera pulita, semplice ed immensamente importante. Insegnante di teatro siriana del villaggio di Majdal Shams, sulle Alture del Golan, (sotto l’occupazione militare israeliana dalla guerra dei sei giorni del 1967), ha fatto un lavoro delicato e difficile per creare con gli sceneggiatori il suo personaggio. Per collegare il suo vissuto a quello del personaggio, ha fatto ricerche sulla città di Homs, ha imparato l’accento, guardato documentari e ha parlato con gli amici del posto. Nelle settimane precedenti l’inizio delle riprese, ha visitato i rifugiati siriani mandati dalle autorità a vivere in queste vecchie città minerarie del nord est inglese, entrando nelle loro case e ascoltando le loro storie.
Oltre alla potenza del personaggio di Yara, il film getta le sue fondamenta sul volto vissuto di Dave Turner. Il viso di Turner nei panni di TJ può idealmente sovrapporsi a quello di Dave John di Io, Daniel Blake e Kris Hitchen di Sorry We Missed You. Basta un primo piano per raccontare una storia a volte.
In sintesi, il cinema è tante cose: un posto intimista, è sogno, emozione, visioni, distrazione ma anche impegno civile e politico. Lo è sicuramente quello di Ken Loach con la capacità unica di rappresentare il proletariato e i drammi della working class.
Che sia o meno l’ultimo film di Ken Loach, The Old Oak appare sicuramente come un testamento di visione e intenti, capace di infondere nel pubblico messaggi sociali di grandi attualità e peso.
Forse un altro Mondo non è possibile, ma Loach ci fa vedere come dovrebbe essere. Il regista ci mostra la via, l’unica possibile, per seminare coesione. La strada da percorrere per vedere un futuro migliore e lo fa con onestà intellettuale, lucido pessimismo e con un senso tangibile di grande perdita nel cuore.
Per questi aspetti, The Old Oak è un film che colpisce duro allo stomaco, che lascia sì spiragli, ma probabilmente non speranza. Lo straordinario finale, tra i più emozionanti di tutto il cinema di Loach, è forse un sogno, metafora di un grande abbraccio con il quale la nostra vecchia quercia vorrebbe proteggerci tutti.
Ilaria Berlingeri