Il film targato Netflix sarà disponibile sulla piattaforma streaming dal 13 novembre 2020
Madame Rosa (Sophia Loren) è un’anziana donna ebrea reduce da Auschwitz che cresce, nel suo piccolo appartamento, i figli delle donne che non possono occuparsene. Un giorno, le viene affidato un turbolento dodicenne di strada di origini senegalesi, Momò (Ibrahima Gueye), che lei accetta con riluttanza. Il loro rapporto, però, col tempo si trasformerà in un’intensa e profonda amicizia, che cambierà per sempre le loro vite.
Il variegato universo umano di Romain Gary rivive nell’ultimo lungometraggio di Edoardo Ponti, La vita davanti a sé, un adattamento fedele nello spirito ma inedito per location: una Bari “kasbah” che sostituisce la Parigi delle banlieue del romanzo.
“Volevo una città che fosse un crocevia di culture, proprio come la Belleville del libro. – dice Ponti in conferenza stampa – La volevo al contempo calda e vitale, per poter raccontare personaggi che vivono la vita pienamente. L’adattamento non è stato facile, perché inizialmente non volevo sacrificare nulla di un libro meraviglioso; poi però ho capito che dovevo concentrarmi sul cuore della storia, ovvero sul rapporto tra Madame Rosa e Momò, apparentemente agli antipodi ma in realtà molto simili“.
I personaggi di La vita davanti a sé sono dei miserabili pieni di cuore appartenenti a varie nazionalità, affidati alle cure di una ex prostituta ebrea scampata ai campi di concentramento: un colorato universo almodovariano senza barriere e pregiudizi razziali e culturali.
Il film di Ponti, così come il romanzo di Gary, parla di solitudine, di abbandono, di vita ai margini della società, ma soprattutto di amore: quello fra l’orfano Momò e la donna che lo ha cresciuto. E vuol dimostrare che l’amore filiale non si prova a comando verso i genitori biologici, ma verso le persone che si sono prese cura di noi.
D’altronde, che senso ha la vita se non si ha qualcuno da amare? Lo sa bene Momò, costretto a vivere esperienze troppo grandi per la sua età, a confrontarsi precocemente con l’abbandono, la povertà, la solitudine, la perdita e con la prematura constatazione che la vita è dura e non fa sconti e che la felicità bisogna prendersela fintanto che c’è.
Il suo famelico desiderio di amore trova ristoro in una sorta di madre adottiva, che il ragazzo si prodiga ad assistere e confortare fino alla fine con filiale sollecitudine.
Ponti è bravo nel mirare alla nostra empatia e a far leva sulla nostra sensibilità, descrivendo efficacemente il rapporto, inizialmente ostile e diffidente, ma pian piano sempre più intimo e intenso, tra Madame Rosa e il piccolo Momò.
Sullo schermo, il merito della riuscita del personaggio di questa donna coriacea ma segnata dal dolore è soprattutto di una Sophia Loren in stato di grazia, che la dipinge con appassionata sincerità.
“Mancavo dal set da molto tempo, ma questo personaggio mi ha conquistato, perché mi ha ricordato quelli bellissimi del cinema di un tempo. – rivela la Loren – E’ stato come se non mi fossi mai fermata e il merito è stato di una storia che avrei voluto interpretare da anni e di cui il cinema ha davvero bisogno. Non una storia qualunque, ma importante, soprattutto per me“.
Alberto Leali