Secondo lungometraggio da regista, dopo la commedia ‘La mossa del pinguino’, dell’attore Claudio Amendola, ‘Il permesso- 48 ore fuori’ è un robusto e coinvolgente film di genere che prende vita ripescando dalle pellicole che hanno segnato non solo la carriera artistica (‘Mery per sempre’, ‘La scorta’, ‘Poliziotti’, ‘Suburra’), ma anche la vita del suo autore (l’evidente passione per Scorsese o Cimino). Un’opera realizzata col cuore, e in cui tutti, dal regista, agli attori, agli sceneggiatori, sembrano perfettamente a loro agio. Il soggetto e la sceneggiatura, infatti, sono firmati da Giancarlo De Cataldo, che ricalca i percorsi tematici e stilistici dei successi ‘Romanzo criminale’ e ‘Suburra’, mentre il cast vede fra gli interpreti Luca Argentero, che abbandona i sorrisi della commedia per calarsi in un ruolo cupo, violento e per lui per nulla usuale, i giovani e bravissimi Giacomo Ferrara e Valentina Bellè e un misurato Amendola, in un ruolo dolente e catartico.
La vicenda di ‘Il permesso’ è quella di quattro esseri umani, diversi per ceto sociale, età, trascorsi passati, crimini, percorsi di vita, che hanno solo 48 ore, quelle fuori dal carcere di Civitavecchia in cui sono detenuti, per perdersi o riscattarsi. A loro modo, quattro storie d’amore, in cui ogni personaggio ha bisogno di amare, di sentirsi amato, di vendicare un amore o di salvarlo. Un film sporco, violentissimo e doloroso, ma non disperato o pessimista, perché aperto alla speranza, soprattutto verso i giovani e i loro futuri instabili, ma ancora da sognare e da costruire. Un noir ben girato, ben fotografato e ben montato, che non allenta mai la tensione e conquista per sincerità e onestà. Seppur con qualche passaggio narrativo poco convincente e una colonna sonora poco calzante, ‘Il permesso’ è un film prezioso nel suo sforzo di riproporre un genere oggi non più in voga nel cinema italiano, ma che grazie a qualche fortunato e recente tentativo sta riaffiorando con una certa forza in quel noioso marasma di commediole fatte con lo stampino. E soprattutto è un’opera ottimamente interpretata (meno convincente a livello di scrittura il ruolo di Argentero, ma la validità della sua interpretazione, ‘corporea’ più che verbale, non si discute) da attori in grado di dar vita in maniera incisiva al dolore delle loro anime.
Alberto Leali