Sawyer Valentini è una giovane donna in carriera, che ha lasciato la sua città natale perché è stata vittima di stalking. Fragile e logorata psicologicamente, cerca aiuto presso un istituto che offre assistenza psicoterapeutica. Dopo un primo colloquio, però, viene ricoverata contro la sua volontà, perché ritenuta un pericolo per sé e per gli altri.
Inizia così un incubo surreale, che culmina nella scoperta che uno degli infermieri del centro è in realtà proprio il suo stalker. La ragazza denuncia la cosa in ogni modo, ma nessuno le crede.
Da tempo alla ricerca di canali produttivi e distributivi alternativi a Hollywood, Steven Soderbergh realizza un cinema a metà strada tra mainstream e autorialità, che delinea certamente un percorso variegato ed inedito nel panorama cinematografico americano.
Con Unsane, oltre a mettere in scena un thriller psicologico claustrofobico e angosciante, si diverte a confrontarsi con le sfide imposte dalle nuove tecnologie in ambito cinematografico, sperimentando inedite modalità di racconto.
Girando interamente con un iPhone 7 Plus, che trasmette un inquietante senso di immediatezza, Soderbergh ci immerge nell’inconscio di una donna segnata irreversibilmente da una ferita che non ha smesso di sanguinare. E soprattutto, facendo acquisire allo spettatore il suo punto di vista, lascia costantemente il dubbio che le cose che le accadono sullo schermo non corrispondano realmente a come le vede. Ci chiediamo, infatti, chi sia davvero Sawyer, se sia disturbata o sana di mente, se l’uomo da cui è tormentata sia veramente il suo stalker e se si trovi lì con lei in quella clinica.
Ma Soderbergh si spinge ancora oltre: catapultando la protagonista in un incubo kafkiano in cui diviene vittima impotente della burocrazia, arricchisce Unsane di sferzanti venature politiche. Il film può essere letto, infatti, anche come una critica a un sistema sanitario corrotto, che non si fa scrupoli a ricoverare gente sana, per lucrare sulle loro assicurazioni mediche.
Ma soprattutto Unsane tratta la tematica attualissima e scottante dello stalking, raccontando in modo realistico ciò che accade a tante donne che vivono costantemente nella paura, costrette a rinunciare al loro stile di vita e proteggendosi, non sempre consciamente, nella solitudine.
La psicologia tormentata della protagonista emerge anche grazie all’abile regia di Soderbergh, che la intrappola in primi piani ravvicinatissimi e in inquadrature strette e asimmetriche, sottolineandone l’assoluta impossibilità di fuga. Ottima, inoltre, è la performance di Claire Foy, nota per la serie The Crown, alle prese con un ruolo di grande complessità, di cui rende perfettamente la mutevolezza emotiva. Con lei c’è un bravissimo Joshua Leonard (The Blair Witch Project), che con il suo atteggiamento premurosamente diligente risulta davvero efficacemente inquietante.
L’uso dell’iPhone, inoltre, non si rivela mero vezzo autoriale, ma risulta perfettamente funzionale al narrato, rispecchiando, con le immagini sgranate, le angolazioni stravaganti e i colori artefatti, l’interiorità instabile della protagonista e la sua percezione alterata del mondo circostante.
Tenendo salde le redini di una narrazione che non perde mai un briciolo di tensione, Soderbergh si riconferma regista di mestiere e sperimentatore impavido, capace di un cinema che mescola ammirevolmente intrattenimento e scavo psicologico.
Roberto Puntato