Al suo terzo film, Alice Rohrwacher non delude, incantando la 75esima edizione del Festival di Cannes, che la premia con la Palma d’Oro per la sceneggiatura.
Siamo negli anni ’90 in un’Italia rurale dove vigono ancora le vestigia della mezzadria: una numerosa famiglia di contadini, vittima del “grande inganno”, lavora in condizioni di povertà e sottomissione al servizio della Marchesa De Luna, spregiudicata imprenditrice di tabacco, che vive nella sua grande casa con l’inquieto figlio Tancredi.
Tra i contadini c’è il giovane Lazzaro, talmente buono, ingenuo e gentile, da essere considerato lo “scemo del villaggio”. Figlio di nessuno ma proprietà di tutti, schiavo degli schiavi ma sempre col sorriso stampato sul volto, Lazzaro è incapace di qualunque forma di giudizio, così come di distinguere il bene dal male.
L’annoiato e viziato Tancredi sfrutterà la bontà del coetaneo per uno dei suoi atti di ribellione all’autorità materna, ma per Lazzaro quella è amicizia vera, da tutelare ad ogni costo. Dopo una caduta mortale, però, Lazzaro si risveglia dopo una trentina di anni identico nell’aspetto, ma in un mondo completamente mutato. Si ritrova, infatti, in una giungla urbana che si rivela ancora più aspra di quella che aveva lasciato, così come più duro è diventato il cuore degli uomini.
Sposando i toni del realismo magico senza mai definire il contesto sociale o temporale, così come era accaduto nel precedente Le Meraviglie, Alice Rohrwacher racconta l’incomprensione della purezza, lo sguardo sperduto dell’innocenza e il suo dolore di fronte all’iniquità umana e sociale. Il suo Lazzaro felice è una fiaba politica sulla storia dell’Italia, che denuncia la propensione dell’uomo alla violenza e allo sfruttamento del suo simile. Come lo ha definito la regista, il passaggio da un medioevo materiale ad un medioevo umano, in cui la lotta non è più dei poveri contro il padrone, ma dei poveri contro altri poveri.
I colori caldi della campagna arida e isolata della prima parte lasciano il posto al grigiore e alla freddezza metropolitana della seconda; perché il mondo è cambiato, sì, ma non certo in meglio. I contadini, non più schiavi, sono ora dei delinquenti: poveri, smarriti, emarginati, hanno ormai perso qualunque forma di umano sentire.
Abbracciando, come in tutti i suoi lavori, natura, religione, fede e tradizioni popolari, il simbolismo di Alice Rohrwacher è evidente sin dalla scelta del nome del protagonista e della sua resurrezione: quella di Lazzaro felice è una parabola sulla santità dello stare al mondo, il ritratto di un Candido che non conosce il male, di un San Francesco risparmiato dal lupo che ne riconosce la bontà.
La cura formale e la padronanza del mezzo registico (il film è girato in un suggestivo super16) si accompagnano a un racconto che mescola Olmi, Pasolini, Citti, De Sica, Rossellini, ma anche attori professionisti (Rohrwacher, Lopez, Braschi) a bravissimi non professionisti, tra cui spicca, per physique du rôle, Adriano Tardiolo nei panni del protagonista.
Lazzaro felice è un film sensibile, struggente, libero, ardito: una mosca bianca che aleggia con grazia in un cinema, quello italiano, che per fortuna è ancora capace di sorprendere.
Roberto Puntato