Lino Guanciale protagonista di La classe operaia va in paradiso, lo spettacolo diretto da Claudio Longhi liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri. Dal 22 al 27 maggio al Teatro Argentina, per riflettere sulla recente storia del nostro Paese
Dal 22 al 27 maggio al Teatro Argentina a completare l’attenzione al mondo del lavoro, dopo Ritratto di una Nazione – L’Italia al lavoro, l’affresco corale prodotto dal Teatro di Roma come progetto speciale Mibact, e che ha inaugurato lo scorso settembre la stagione, ecco LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO, adattamento per il palcoscenico del film di Elio Petri (1971), diretto da Claudio Longhi, su drammaturgia di Paolo Di Paolo e con protagonista Lino Guanciale, ad aggiornare l’affresco di un’epoca alle questioni bollenti dell’oggi.
Alla sua uscita nelle sale cinematografiche nel 1971, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri riuscì nella difficile impresa di mettere d’accordo gli opposti: industriali, sindacalisti, studenti, nonché alcuni dei critici cinematografici più impegnati dell’epoca, si ritrovarono parte di uno strano fronte comune contro il film. E la pellicola non ha così avuto una grande fortuna in Italia, nonostante la Palma d’Oro a Cannes e la galleria di stelle presenti, fra cui Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Salvo Randone. La vicenda dell’operaio Lulù Massa, stakanovista odiato dai colleghi, osannato e sfruttato dalla fabbrica BAN, che perso un dito scopre per un istante la coscienza di classe, si intreccia qui con le vicende che hanno accompagnato la genesi e la ricezione contestatissima del film. Infatti, accanto ai grotteschi personaggi della pellicola, si alternano sulla scena lo sceneggiatore e il regista, qualche spettatore e alcune figure curiose e identificative della nostra letteratura a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Lo spettacolo è costruito attorno alla sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, ai materiali che ripercorrono la loro officina creativa, a come il film è arrivato al pubblico di ieri e di oggi, e a piccoli capolavori della letteratura italiana di quegli anni, ricomposti in una nuova tessitura drammaturgica dallo scrittore Paolo Di Paolo. Il tutto poi è intessuto dentro le seducenti e algide geometrie musicali di Vivaldi, rielaborate originalmente per l’occasione e “rotte” qua e là da canzoni dolci e amare dell’Italia alla fine del boom.
A quasi cinquant’anni dal suo debutto sui grandi schermi, si torna allo sguardo scandaloso ed “eterodosso”, ferocemente grottesco, del film di Petri per provare a riflettere sulla recente storia del nostro Paese, con le sue ritornanti accensioni utopiche e i suoi successivi bruschi risvegli. «Sulla coda del film, in una breve e significativa scena, l’operaio Lulù Massa girovaga per la sua casa catalogando a uno a uno gli oggetti lì presenti e recitando una personale, e straniante, litania domestica: a ogni cosa risponde un costo, a ogni costo delle ore lavoro. Mutatis mutandis, nella sua concisione quella scena, dalle tinte bluastre e dai toni buffi, parla molto alla (e della) nostra epoca dominata dal consumo ultraveloce – espresso e spersonalizzante grazie al potere della rete -, affetta da una sindrome bulimica permanente mentre, al contrario, è risucchiata in vuoto ideologico spinto. Bizzarro combinato di stili, con una sceneggiatura che qua e là strizza l’occhio alla commedia all’italiana ma si lascia altresì tentare, nel suo impasto cromatico dall’estremismo espressionista, il film di Petri, scandito dalla musica dura e pervasiva di Ennio Morricone, ha il merito di aver provato ad abbozzare una narrazione dell’Italia attraverso il lavoro, oltre i furori utopici di quegli anni febbrili che seguirono il Sessantotto – annota il regista Claudio Longhi – Riattraversarne la vicenda con lo sguardo disilluso del nostro presente, a quasi dieci anni dall’ultima crisi economica mondiale, significa riflettere su quanto quell’affresco grottesco immaginato da Petri nel 1971 sia più o meno distante. Un tempo, il nostro, post-moderno e post-ideologico, che fatica a riconoscere in modo netto i tratti di una qualsivoglia “classe operaia”, dispersa e nascosta dietro gli innumerevoli volti del lavoro “flessibile”. Se dunque l’inferno umido e grasso della fabbrica cottimista dell’operaio Lulù Massa appare ben lontano dagli asettici e sterilizzati spazi industriali o dai lindi uffici dei precari odierni, lo stesso non è del ritmo ossessionante e costrittivo di una quotidianità, allora e ancora oggi, alienata».
Lo spettacolo si inserisce nel percorso dedicato alle tematiche del lavoro, già iniziato con Ritratto di una Nazione e che seguirà sul palcoscenico del Teatro Argentina con Il Capitale di Karl Marx, il progetto di Marco Lucchesi realizzato con gli allievi della Scuola di Teatro e Perfezionamento Professionale del Teatro di Roma, già avviato lo scorso anno come progetto speciale Mibact. “Quasi un Vangelo aprocrifo”, recita il sottotitolo di questa operazione articolata che riflette sul capitalismo, di ieri e di oggi, che si avvale di partner prestigiosi come l’Istituto della Enciclopedia Treccani e il Conservatorio di Santa Cecilia, preannunciato da un ciclo di quattro puntate di Favole Marxiane realizzato al Teatro Torlonia.
Zerkalo Spettacolo