In un teatro di Atene, ai giorni nostri, un gruppo armato fa irruzione durante uno spettacolo che rivisita in chiave moderna l’Orestea di Eschilo. Gli spettatori non si rendono conto se ciò che sta accadendo sia finzione o realtà; alcuni prendono parte alla recita, reinventando di continuo la messa in scena; altri interpretano l’Areopago, l’organo chiamato a giudicare il comportamento di Oreste. Fino a che il limite tra realtà e rappresentazione non sarà violentemente oltrepassato.
Presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2015, Interruption è l’esordio alla regia del greco Yorgos Zois. L’idea a monte, non nuovissima, è quella di considerare la vita come un grande palcoscenico dove ognuno recita la sua parte: alcuni da protagonisti, altri da comparse. Il metateatro è, infatti, il mezzo per riflettere sulla funzione dell’arte all’interno della nostra contemporaneità e sulla sua capacità, spesso sconcertante, di fondersi alla vita reale.
Tale riflessione assume, però, un senso ben più profondo se si considera il legame della Grecia con la sua potente tradizione teatrale, che aveva già ispirato il capolavoro di Theo Angelopoulos La Recita, rilettura della Storia greca come un ciclico ed eterno susseguirsi di dominio e sopraffazione.
Anche Zois riflette sulla Storia, e non solo su quella del suo Paese, concentrandosi, in particolare, sulla cronaca terroristica degli ultimi decenni. L’interruzione teatrale al centro del film si ispira, infatti, a quella reale del 23 ottobre 2002, durante la quale quaranta terroristi ceceni delle Brigate Islamiche sequestrarono 850 civili che assistevano ad uno spettacolo nel teatro Dubrovka di Mosca, tenendoli in ostaggio per tre giorni. Anche in quel caso, il pubblico credette sulle prime che l’attacco facesse parte dello spettacolo.
Zois, però, non si ferma qui, ma indaga sulle modalità della comunicazione contemporanea, mettendo in scena una critica potente e non priva di ironia sulla volontà sempre più dilagante del teatro sperimentale di modernizzare il teatro classico, privandolo della sua funzione, della sua forza e dei suoi insegnamenti. Un teatro che in nome della ricerca ha finito per ripiegarsi su stesso, perdendo di senso.
Allo stesso tempo, il film si scaglia contro un pubblico radical chic e passivo, che assiste a tutto con indifferenza, incapace di comprendere cosa stia realmente guardando e che si scuote solo davanti al sangue e alla violenza, di cui è diventato dipendente. Un pubblico che applaude per inerzia, per cui il teatro e la tragedia hanno perso ogni finalità catartica e per cui l’estremo sacrificio della messa in scena non implica più alcuna liberazione o deus ex machina.
Provocatorio, spiazzante, ipnotico, Interruption dimostra come i ruoli del teatro classico, inseriti in un contesto attuale che ad esso si ispira, ma che lo priva dell’essenza più profonda, divengano soltanto una patetica parodia di se stessi.
La freddezza formale dello stile registico, accompagnato da una recitazione impersonale e stilizzata e da una tensione costante, risulta, quindi, perfettamente funzionale al narrato, in cui salta ogni barriera tra realtà e finzione, per rivelare che è la vita che imita l’arte e non più viceversa. E’ questo che fa anche il cinema, con la sua capacità di farsi contemplare e di fondersi con la vita dello spettatore.
Un progetto ambizioso e complesso, non privo di un certo intellettualismo, ma che si fa portavoce di un cinema coraggioso, capace di scuotere fisicamente e psicologicamente lo spettatore, instaurando con lui un rapporto sorprendentemente dinamico. Un cinema che, proprio per questo, è da accogliere a braccia aperte.
Alberto Leali