Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che sostiene la moglie e la figlioletta con la sua unica proprietà, una piccola barca. Una mattina, però, una delle sue reti blocca il motore dell’imbarcazione, proprio in prossimità del confine tra le due Coree. Pur di non abbandonare il mezzo, il pescatore si lascia trasportare fino alla Corea del Sud, dove viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. Dopo brutali interrogatori e tentativi di conversione al capitalismo, l’uomo viene rispedito in patria, ma qui inaspettatamente subisce lo stesso terribile trattamento.
Kim Ki-Duk torna al cinema delle origini, quello che ce lo ha fatto amare. Assieme a The Coast-Guard, Il prigioniero coreano è tra i suoi film più politici e dà una lettura scomoda e amara della realtà di un Paese spezzato in due.
La vicenda è da incubo kafkiano e vede un povero pescatore, “colpevole” di non aver voluto perdere la propria barca, unico mezzo di sostentamento per la sua famiglia, raggiungere sfortunatamente quello che per la propaganda del regime di Kim Jong-il è l’inferno capitalistico del Sud.
La politica delle Coree viene vista, così, attraverso lo sguardo di un uomo semplice e fedele al regime del proprio Paese, ma che al primo posto mette l’amore per la propria famiglia. Dopo aver subito torture e ingiustizie da un Sud che lo vuole spia e poco interessato a capire chi sia veramente, Nam Chul-woo dovrà, una volta tornato in patria, convincere il potere nordcoreano della propria integrità ideologica e, soprattutto, di non aver contratto il germe virulento del capitalismo.
Nonostante le logiche antitetiche, non c’è differenza tra Nord e Sud: entrambi mancano di umanità e comprensione, annebbiati dall’odio, dal sospetto, dalla voglia di cercare un capro espiatorio a tutti i costi. Una contesa che innalza i confini e rafforza le barriere, creando muri invalicabili e difficili da abbattere: una ferita che ormai sanguina da troppo tempo e che non lascia spazio ad alcuna speranza.
Senza retorica e vezzi autorali, Kim realizza un apologo di sconvolgente durezza, con lo stile crudo, fisico e diretto del suo cinema migliore.
Roberto Puntato