E’ un viaggio immersivo, intimo e inedito Grace Jones: Bloodlight and Bami, il documentario della regista Sophie Fiennes presentato al Torino Film Festival, che racconta la Queen of disco, icona degli 80’s, come non la si è mai vista prima.
Non un tradizionale biopic e nemmeno un film concerto, nonostante sia ricchissimo di hit interpretate dalla performer giamaicana sui palchi di tutto il mondo, ma un’esperienza cinematografica che vuole scoprire la persona che si cela dietro la maschera di pantera dello star system.
Un pedinamento autorizzato dalla Jones stessa, che permette alla Fiennes, nell’arco di oltre dieci anni, di avere accesso agli aspetti più intimi della vita dell’artista, raccogliendo del materiale davvero prezioso e sorprendente. In particolare, la regista esplora la relazione di Grace con la Giamaica e la sua famiglia, facendo emergere sullo schermo l’importanza di un passato che si presenta continuamente nel presente. Un rapporto profondissimo e speciale con le sue radici e con la terra dove ha trascorso, non sempre felicemente, l’infanzia (si pensi, ad esempio, al patrigno violento e fanatico religioso, da cui derivano gli aspetti più aggressivi e quasi terrorizzanti delle sue performance).
Il film alterna, così, i quieti ed inediti momenti in Giamaica (il rapporto con i fratelli e col figlio, la riscoperta dei luoghi dell’infanzia, le chiacchierate a tavola, le lacrime di commozione nell’ascoltare la madre che canta dal pulpito di una Chiesa) con i più vivaci frammenti di vita pubblica e privata (da qui il titolo del film, dove Bloodlight è la luce rossa che si illumina quanto l’artista sta registrando in sala e Bami la focaccia tipica giamaicana). La seguiamo allora, nei viaggi tra Parigi, Tokyo, New York, Londra e Mosca, nelle sale di registrazione, nei servizi fotografici, nelle camere d’albergo e nei ristoranti dove consuma insaziabile ostriche e champagne, nei backstage, nelle notti in cerca di “vita”, nelle accese discussioni, e ovviamente nelle spettacolari performance sul palco.
Ne emerge un ritratto stratificato, sfaccettato, anticonvenzionale, che non si poggia su interviste o testimonianze di amici, colleghi o parenti, ma fa parlare unicamente le immagini. Immagini mai viste prima, che stupiscono, emozionano, perfino commuovono. E sullo schermo si susseguono la Grace amante, figlia, madre, sorella, nonna, componendo un unico grande mosaico da cui scaturisce la complessità della Grace donna. Con la sua inattesa dolcezza, la contagiosa ironia, l’ammirevole forza, e soprattutto la piena consapevolezza dei meccanismi della messa in scena.
Perché Grace Jones: Bloodlight and Bami è anche una riflessione attenta e sensibile sull’identità di un’artista: nel film vediamo, infatti, il processo di costruzione, attraverso il trucco e la “maschera”, della Grace che si appresta a salire sul palco, trasformandosi nella persona che si sente in quel dato momento. Già, le performance della Jones sono proprio l’affermazione del suo impulso creativo nel luogo e nel tempo in cui le mette in atto: è proprio questo che la rende così multiforme, inafferrabile, contrastata, variabile. Il suo istinto è fondamentale nei suoi spettacoli live e senza prove, e nel suo modo libero, vigoroso, sensuale, unico di rapportarsi con il pubblico.
Un film, in sintesi, assolutamente da non perdere per tutti i fan della Queen of disco, finalmente lontano dai clamori che troppo spesso hanno messo in ombra la sua fin troppo sottovalutata carriera musicale.
Alberto Leali